Ti sento, Verbo: la dimensione della croce e dell’eternità
D.M. Turoldo
Nello scorso articolo, per mezzo di alcuni versi di una poesia di D.M. Turoldo (per alcune informazioni sulla vita, qui), abbiamo inaugurato la nuova rubrica sulla poesia cristiana, Scribi del Mistero. Questa settimana, entriamo nel mistero poetico dello scrittore e teologo Turoldo per comprendere più profondamente i movimenti della sua spiritualità al cospetto dell’eterno. Nelle prossime righe, sosteremo un poco di fronte alcuni versi di una delle sue ultime poesie, Ti sento, Verbo contenuta nella raccolta Canti Ultimi.
Il luogo
Così recitano i primi versi dell’inno poetico:
Ti sento, Verbo, risuonare dalle punte dei rami dagli aghi dei pini dall’assordante silenzio della grande pineta - cattedrale che più ami - appena velata di nebbia come da diffusa nube d’incenso il tempio. Subito muore il rumore dei passi come sordi rintocchi: segni di vita o di morte?
Il luogo in cui si manifesta l’eternità non viene descritto dettagliatamente, ma solo attraverso alcune soffuse immagini. Il poeta è immerso nello spazio e nel tempo con ogni sua facoltà percettiva, sente la superficie aguzza delle foglie dei pini, si abbandona in un silenzio definito ossimoricamente come assordante, guarda la nebbia diffondersi fra le pareti della natura. Ogni frammento di realtà, però, nella percezione interiore del poeta diventa un luogo sacro, reso eterno dalla presenza del Verbo. La poesia si fa disvelamento di una dimensione altra, che travalica la mortalità del divenire e che disperde la linea di confine tra la vita e la morte.
La croce
Nei versi successivi leggiamo:
Non è tutto un vivere e insieme un morire? Ciò che più conta non è questo, non è questo: conta solo che siamo eterni, che dureremo, che sopravviveremo … Non so come, non so dove, ma tutto perdurerà: di vita in vita e ancora da morte a vita come onde sulle balze di un fiume senza fine.
L’asprezza dello spazio-temporale in cui la poesia inizia sembra quasi l’immagine di una vita sofferta, di un’esistenza segnata dagli aghi del dolore, dal legno di una croce che tutti siamo chiamati a portare sopra le nostre spalle. Eppure è proprio la dimensione della croce che permette di sentire il Verbo, quel Verbo che, inscindibilmente unito alla trinitaria eternità, obbedisce al volere del Padre e annienta se stesso fino alla morte. La croce diventa poeticamente cattedrale, luogo sacro profondamente amato dal Signore, perché luogo in cui per sempre ha sconfitto la morte e glorificato la Vita.
Il Verbo
Morte necessaria come la vita, morte come interstizio tra le vocali e le consonanti del Verbo, morte, impulso a sempre nuove forme.
Nella conclusione della poesia, tutta l’esistenza è abbracciata dal Verbo: prima di giungere a significare il Dio incarnato, per Turoldo, il Verbo è la parola nella sua dimensione più alta, è il Verbo creatore e compimento del tutto. La poesia diventa spazio in cui l’uomo si percepisce formato dal linguaggio, inserito all’interno di un processo poetico che struttura la sua forza e che dà forza per comprendere e accettare il dolore della croce, la certezza della morte. Contemplando il Verbo, ogni coscienza vede la dimensione della mortalità come interstizio necessario alla vita d’amore che le ha promesso l’Eterno.