At 6,1 – 8,1
«Le pietre fanno male. Lacerano la pelle, strappano i muscoli, spezzano le ossa. Ma più male ancora fanno gli sguardi che escono da quei musi intrisi di odio, da quelle bocche che digrignano i denti. Fa male vedere – finché il sangue non si raggruma scuro sugli occhi – quei mantelli gettati a terra per lasciare le mani libere di afferrare con sadica cura il sasso più pesante e tagliente. Eppure il dolore – e ancora di più la paura del dolore – era già lontano quel giorno, sulla terra rossa fuori Gerusalemme. Straziava il mio corpo, non me. Il cielo era una porta di luce. E là il Figlio dell’uomo stava in piedi, al fianco di Dio. Diverso ero il suo sguardo. Diverse le sue labbra. Diverse le sue mani. Fu lui a darmi la forza di offrire il perdono ai miei carnefici. Lui che aveva percorso il vicolo (cieco solo fino ad allora) della croce, lasciandosi ingoiare per tre giorni nei flutti lividi della morte. Lui era là per me, ad accogliere il mio spirito. E lui era là anche per loro».
Potremmo forse trovare queste parole aprendo lo scrigno che gli Atti degli apostoli hanno sigillato con un lapidario «Detto questo morì». A morire è Stefano. Quello che la tradizione cristiana venera come il primo martire della fede cristiana. Lo incontriamo come primo nell’elenco di quei sette uomini che gli apostoli scelgono per «servire alle mense». E di lui si dice che era un «uomo pieno di fede e di Spirito Santo» (ecco la terza persona della Trinità che completa il quadro della sua visione nel momento della condanna a morte: «contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio»).
Il contesto è quello dell’infanzia della chiesa: la comunità cristiana, dopo la pentecoste, muove i primi passi, goffi ma coraggiosi, cercando di stare in piedi in una realtà sociale e religiosa complessa e perennemente in fermento come era quella della Giudea del I secolo. A Gerusalemme si registra una tensione interna (le crisi nella chiesa non sono un’esclusiva del medioevo o del nostro tempo), gli Atti parlano di un “malcontento”. Il problema nasce dalla coesistenza di due gruppi: uno di lingua ebraica e l’altro di lingua greca che non trovano il modo di fare comunità, di condividere in modo adeguato i loro beni. Quelli di lingua greca si sentono un po’ di serie B e reclamano.
Sono gli apostoli, che negli Atti vengono chiamati “i dodici” (non c’è più Giuda, ma è stato sostituito da Mattia), a prendere in mano la situazione e scegliere sette fratelli di lingua greca che si mettano a servizio (diaconia) di quella comunità linguistica. Inizialmente si parla di mensa e di assistenza ai poveri (le vedove), ma ben presto diventa chiaro che il loro impegno è molto più ampio e comprende il servizio della Parola.
Si legge che Stefano «faceva grandi prodigi e segni tra il popolo». Questo crea scompiglio, tanto che alcuni giudei si mettono a discutere con lui ma, racconta l’evangelista Luca (autore anche degli Atti degli Apostoli), «non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava». E le parole a Stefano certo non mancano. Tanto che, trascinato di fronte al Sommo Sacerdote, per difendersi tiene il più lungo discorso che troviamo negli Atti. Più lungo di quelli di Pietro e di Paolo. Ed è tutto detto! Ripercorre, infatti, la storia del popolo di Israele, da Abramo fino a Salomone.
Alter Christus
La vicenda di Stefano ripercorre quella della passione di Gesù, cui lui ha aderito con tutto se stesso. Compie prodigi che suscitano la gelosia delle gerarchie religiose giudaiche, quindi si cercano falsi testimoni per toglierlo di mezzo: «istigarono alcuni perché dicessero: “Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio”». Segue quindi una sorta di processo sommario che termina con la condanna a morte: croce per Gesù, lapidazione per Stefano.
Anche le loro ultime parole suonano molto simili.
Gesù dalla croce prega: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Stefano: «Signore, non imputare loro questo peccato».
Gesù prima di morire dice: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
Stefano: «Signore Gesù, accogli il mio spirito».
È cambiato il destinatario della preghiera: Gesù si rivolge al Padre, Stefano a Gesù stesso, divenuto il Signore della sua vita.
Sull’aspetto di Stefano sappiamo poco. Il Nuovo Testamento in genere si sofferma poco sui tratti somatici delle persone. Ma Luca ci offre un’indicazione preziosa: «Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo». Possiamo verosimilmente supporre che Stefano partisse già da una buona base, cioè che fosse quel che si dice “un bel ragazzo”. Anche qui non è difficile trovare un parallelismo stretto con la trasfigurazione di Gesù di cui Luca scrive: «il suo volto cambiò di aspetto» (Lc 9,29).
In altre parole Stefano incarna l’ideale cristiano sintetizzato da Paolo: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Solo da questa fede può scaturire la forza di affrontare il martirio.
Per me oggi
- Chi è Gesù nella mia vita: un’ombra? Un’idea? Una presenza?
- Da dove attingo la forza per affrontare le crisi (esistenziali, di relazione, di salute, di fede)?
- Qual è la sostanza della mia preghiera: richiesta per me o per gli altri? Affidamento o pretesa?
Patrizio Righero
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