“Pastore buono, pastore bello. Così si definì lui stesso, riprendendo un’immagine che i Salmi e i Profeti avevano riferito al Padre, pastore del suo popolo, pastore di tutti gli esseri.” Ci introduciamo alla domenica del “Pastore bello” con la meditazione di Francesco Pacia.
IV Domenica di Pasqua 21 aprile
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio». (Gv 10, 11-18)
Pastore buono e bello
Pastore buono, pastore bello. Così si definì lui stesso, riprendendo un’immagine che i Salmi e i Profeti avevano riferito al Padre, pastore del suo popolo, pastore di tutti gli esseri. La fece sua per dire la sua identità, la sua missione, la sua relazione a ciascuno dei suoi, a ciascuno di noi, la sua relazione al Padre.
Pastore buono e bello. Buono perché bello, bello perché buono. Buono nella sua cura e tenerezza verso ciascuna delle pecore. Bello nella sua vita donata, nel non arretrare davanti alla morte: una morte che è dare la vita per, che è vita per la pecora, per l’altro. Del resto è quello che realmente fece, quando al momento dall’arresto lasciò andare i suoi, perché non venissero presi, e soprattutto quando sulla croce fu innalzato e trafitto e del suo cuore fece il recinto per ogni smarrito, perduto o morto da riportare in vita.
Pastori e mercenari
La scelse, questa immagine, guardando i pastori della sua terra, passando al setaccio pastori e mercenari, pastori e ladri. Guardando la solerzia umana dei pastori, specie i più poveri, in ansia anche per una sola pecorella smarrita o perduta o in pericolo. Ma ancor di più la scelse perché il suo cuore di carne era il cuore stesso di Dio, fremente di viscere materne e paterne, in perenne ansia, gravida d’amore, per ogni figlio smarrito, perduto o morto da riportare in vita.
La fece sua, perché era davvero tale, perché la sua missione e identità erano proprio quella di andare in cerca di chiunque fosse smarrito, salvarlo dalla disperazione e dalla morte, abbracciarlo, farne il monile più bello del suo cuore e delle sue spalle.
E ci ha consegnato questa immagine perché attraverso di essa capiamo chi siamo e quanto valiamo per lui. Siamo suoi e tra noi e lui passa un legame, fatto di voce e vita, di appartenenza liberante; di sangue, il suo donato per noi; di amore, il suo, sconfinato, davanti al quale la morte non può nulla: si spezza e torna indietro. Perché a lui la vita non è stata strappata, ma l’ha donata. Non gli è stata tolta, l’ha data al posto di e per noi. Per amore. Del Padre, innanzitutto. E nostro, prima che siamo perfetti, prima che siamo amabili. Chi ama così entra nel sepolcro e nella morte già unto di risurrezione. Non perché la morte, la sua, sia finta, come qualche eretico ha creduto, ma perché uno così ha già vinto la morte nel momento in cui non la subisce, ma la vive liberamente e nell’offerta.
Pastore e Agnello
E lui – il pastore buono, lui che è Pastore, ma anche Agnello, Agnello di Dio, sacrificato, immolato, trafitto per e al posto nostro, Agnello che ha dato la vita – ha voluto che dessimo la vita, amandoci gli uni gli altri; ed entrassimo, così, unti della sua Pasqua, nelle strettoie delle morti per recuperare, riportare in vita e abbracciare ogni smarrito di cuore e di via.
Ma soprattutto perché ci pasciamo gli uni gli altri, come chiese per tre volte a Pietro alla fine del Vangelo di Giovanni, confermando il suo amore e la sua vocazione. E questo attraverso il miracolo unico di ogni vocazione e dei vari ministeri e carismi; perché attraverso la vocazione matrimoniale o religiosa, presbiterale o lavorativa, siamo sacramento della sua tenerezza per ognuno, strumento della sua cura per ogni uomo. Perché, in fondo, per questo siamo fatti: per un unico grande abbraccio al e sul suo cuore: pecore perdute e pecore rimaste nel recinto, strette nell’unico grande braccio del pastore dalla festa generosa; figli e fratelli riconciliati e riportati in vita, quella vita senza fine che ormai per sempre ci appartiene, stretti nell’unico abbraccio del Padre.
*Il testo è apparso su Kairós. Comunità vocazionale Diocesi di Nola, Anno II, n° 2 – 28 marzo 2024, p. 14.
Francesco Pacia
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