Tensione al Mistero in Louis Aragon
Louis Aragon
Continuiamo con questo articolo il viaggio nella poesia del Novecento (per lo scorso articolo), attraverso l’analisi della poesia Non esistono amori felici, di Louis Aragon, poeta francese del Novecento. In ogni verso della poesia si sente una vibrante tensione al Mistero: le parole si consumano nell’esperienza del dolore e dalle umane ferite d’amore si fa corpo un grido che chiede ragione di esistere al Cielo. Così recitano le prime due strofe della poesia.
Temporaneità ed eternità
Nulla appartiene all’uomo Né la sua forza Né la sua debolezza né il suo cuore E quando crede Di aprire le braccia la sua ombra è quella di una croce E quando crede di stringere la felicità la stritola La sua vita è uno strano e doloroso divorzio Non esistono amori felici La sua vita somiglia a quei soldati disarmati Ch’eran stati preparati a un diverso destino A che può servire che s’alzino al mattino Loro che si ritrovano la sera sfaccendati incerti Dite queste parole Mia vita E trattenete le lacrime Non esistono amori felici
Sembra quasi che in queste prime due strofe sia Dio a prendere la parola in vece del poeta. Lui, con uno sguardo che occupa l’estensione del cielo, entra, per mezzo della Parola salvifica nei penetrali bui del tempio umano e scruta ogni segreto del cuore, ogni dolore, tutto il suo amore. Lui sa che quando amiamo veramente, «crediamo di aprire le braccia»: spalancando il nostro cuore all’altro, uniamo indissolubilmente la dimensione felice della gloria a quella dolorosa della croce e iscriviamo la nostra temporaneità nell’eternità di Dio. La terra è divorzio dal cielo è aridità di un cuore che ha sete d’eterno e che sgretola, anzi, stritola, con il suo impeto, l’esilio arenoso in cui è confinato. Ma allora, a cosa valgono questi nostri sforzi da soldati disarmati, calibrati nelle forze per vivere per sempre e destinati a vivere solo fino alla fine di questo nostro tempo?
Lacerazione
Mio amore bello mio caro amore mia lacerazione Ti porto in me come un uccello ferito E quelli senza capire ci guardano passare Ripetendomi dietro le parole che ho intrecciato E che per i tuoi grandi occhi così presto morirono Non esistono amori felici Il tempo per imparare a vivere è già passato Piangano nella notte i nostri cuori all’unisono Quanta infelicità per la più piccola canzone Quanti rimpianti per scontare un fremito Quanti singhiozzi per un accordo di chitarra Non esistono amori felici.
Il poeta ritorna a parlare rivolgendosi al proprio amore, lo chiama lacerazione: soltanto tenendo fra le mani, anzi, dentro al cuore, la fragile potenza di una relazione, se ne comprende la preziosità, la si percepisce lacerata non soltanto perché appartiene alla dimensione del dolore, ma perché la si vede assoluta e scissa dallo scorrere del tempo, la si vuole strappare all’incosistenza del divenire. E l’unica arma che resta al poeta (e all’uomo) è rimanere dentro il proprio amore, intrecciare per lui parole e sentire l’eco di queste passare, mentre passa anche il tempo. Ma la poesia non ha la forza di arrivare neppure a quel suo amore che respira accanto a lui e, per i suoi occhi, presto, muore.
Un fine senza fine
Non esistono amori che non siano dolore Non esistono amori che non strazino Non esistono amori che non lascino il segno E non più che di te l’amor di patria Non esistono amori che non si nutrano di pianto Non esistono amori felici Ma è il nostro amore fra noi due.
Intrecciato alla dimensione della croce, l’amore non ha come fine la felicità terrena, il pieno raggiungimento di qualcosa che scopriamo essere aridità rocciosa ed evanescente. Ma se la felicità avesse davvero come fine la terra, allora anch’essa avrebbe fine. Eppure noi non siamo stati creati per la fine. O meglio, noi siamo stati creati per un fine che vuol dire compimento ed eternità. E allora, quel nostro amore che rimane, per sua natura, non può svanire, perché vive e si nutre dell’amore e del dolore dell’Eterno.