Se stai cercando un libro che ti permetta di pregare, meditare, riflettere sulla tua vita e, oltre a questo, ti aiuti a metterla nelle mani di Dio, esattamente com’è, nei suoi lati oscuri come negli aspetti più luminosi, allora “L’ultimo posto” di Eric Pearlman (Forza Edizioni, 2023) – una raccolta di poesie e preghiere – è esattamente quello che fa per te. Pearlman si rivela subito una specie di Giobbe 3.0.
Egli, infatti, nei suoi scritti, semplici e accessibili, ma raffinati e profondi al tempo stesso, si rivela perfettamente consapevole della natura dell’essere umano e del dolore che tutti attraversiamo: sa che siamo stati creati per il Cielo, per corrispondere all’Amore infinito di Dio. Al contempo riconosce tutte le storture che ci segnano, nonché le fatiche che possiamo incontrare nel cammino: ammette di cadere lui stesso in quegli errori che cerca di evitare.
Leggere la vita nella verità
C’è una prghiera, nel libro, intitolata “Sono una pessima persona”, dove lo scrittore si mette a nudo, senza edulcorare le parti di sé che non gli piacciono:
“Sono una pessima persona.
Non so mostrare gratitudine.
Dimentico gli amici.
Trascuro gli impegni.
Arrivo in ritardo
Agli appuntamenti importanti.
Parlo a sproposito e taccio
Quando dovrei dire qualcosa.
Deludo chi da me si aspetta grandi cose
E anche chi si aspetta molto di meno.
Questo sono io,
nonostante ce la metta tutta
(ma i tentativi sono invisibili
Ed è bene non raccontarli)
Per essere qualcosa di meglio.
Ti sporcherai le mani con me, Signore,
per raccogliermi nel fango scuro
dei miei tanti peccati?
“E chi può essere salvato?”.
Rispose: “Ciò che è impossibile agli uomini,
è possibile a Dio” (Lc 18, 26-27)
L’autore sembra fare eco a san Paolo apostolo, che, nella lettera ai Romani, afferma di non compiere il bene che desidera e di cedere al male, anche se, invece, non lo vorrebbe.
Pearlman, come chiunque abbia affrontato un cammino di fede onesto, sa che tutti dobbiamo fare i conti con limiti, cadute, fragilità che ci rallentano, che feriscono noi ed altri.
Dunque, lungi dal mostrare una visione serafica dell’Uomo, (poiché sempre, in questa vita, si deve lottare contro l’egoismo e rimettersi in moto nella strada del Vangelo) l’autore mette in luce ciò che di negativo abita in noi, per mostrare, in controluce, che abbiamo bisogno di redenzione.
Lo scrittore non mostra neppure, però, un’idea irrimediabilmente pessimistica della creatura umana e della vita.
La salvezza non è bravura nostra, ma dono di Dio
Non siamo perduti, sembra dirci Pearlman in ogni suo testo, e non perché siamo perfetti, come gli è noto, bensì perché Dio ha scelto e sceglie di chinarsi su di noi, accogliendoci proprio per quello che siamo, con i nostri picchi di bellezza e la nostra miseria.
Siamo amati, nelle nostre debolezze; attiriamo su di noi la misericordia e uno sguardo di stimolante fiducia da parte di Dio.
E così Pearlman si permette di parlare, con tenerezza e amore filiale, direttamente a Dio.
Nella poesia L’oceano della tua misericordia leggiamo:
“Mi affaccio sull’oceano
della tua misericordia, Padre,
per poter indossare domani
un nuovo me
pulito e rinnovato.
Perché il tuo è un perdono
che trasforma”.
L’autore offre, inoltre, dei veri e propri inni alla vita, senza, per questo, trascurare la sofferenza di cui spesso è impastata.
Come spiega Chiara Bertoglio nell’introduzione del libro “Pearlman ha il dono raro di saper dire l’uomo di oggi, nella sua nuda verità, nelle sue fatiche, in interrogativi che spesso somigliano a quelli di un Giobbe 3.0; ma anche – e questo è forse ancora più raro – di parlare con le parole di Dio, di parlare a Dio con le parole che Egli vuole sentire, quelle che ha messo sulle nostre labbra”.
Pearlman sembra aver capito quale sia il vero segreto della pienezza, ciò che svela, in parte, il mistero della nostra esistenza: la presenza di Dio in noi.
E così, in mezzo a croci, battaglie, dubbi, dichiarazioni di fede incerte, dolore, silenzi, paure, debolezze, ci parla sempre di Qualcuno che viene a salvarci, a guarirci; a guarire la parte più nascosta, più intima e irripetibile di noi: l’anima.
“Non chiedo di guarire le mie malattie,
ma di guarire me.
Che è tutta un’altra cosa.
So che non mi darai ricette
ma Parole di vita eterna;
so che non mi somministrerai pillole,
ma cibo buono per l’anima.
E sarò di nuovo un uomo.
E sarò di nuovo vivo”.
(Dalla poesia “Non guarire le mie malattie”)
Esattamente come Giobbe, Pearlman rifugge una fede ingenua e dettata solo dalle circostanze positive del momento: avere fede significa avere Dio, nel bene e nel male.
Se vuoi leggere un altro articolo della rubrica “Santi Nascosti”:Lasciare tutto per Dio? La storia di Suor Clare Crockett – Le grain de blé