L’amica genialePrima parte

Non so se sia davvero il più bel romanzo di questo primo quarto di XXI secolo. Almeno lo è per il New York Times, che lo ha messo al primo posto tra i 100 libri del secolo. Certo è che L’amica geniale, seguito dagli altri tre romanzi, Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta, Storia della bambina perduta, partoriti dall’anonima e misteriosa Elena Ferrante, ha davvero avuto un successo planetario, tant’è che chiunque si nasconda dietro tale pseudonimo è attualmente la quarta penna italiana più letta al mondo dopo Dante, Montale e Manzoni.

La notizia, invero, ha fatto storcere il naso a non pochi critici – di mestiere o improvvisati – del Bel Paese. C’è, poi, chi se l’è presa con questi detrattori, adducendo come giustificazione del rigetto della Ferrante in Italia stereotipi di genere o il biblico nemo propheta in patria. Altri, giustamente, riconoscono i limiti dell’operazione del New York Times, perché troppo “americana” e “occidentale”.
Ma non è di questo che voglio scrivere. Ripeto, veramente, non so se il primato sia meritato. Bisognerebbe aver letto gli altri libri della lista. Tra l’altro – per amore di verità – bisogna precisare che il primato riguarda solo il primo libro della tetralogia della Ferrante, la quale però compare ben altre due volte nella lista: al 92° posto con I giorni dell’abbandono e all’80° posto con Storia della bambina perduta, il quarto e ultimo tassello della storia di Lila e Lenù, il più introspettivo di tutta la tetralogia.

E allora di cosa vorrei scrivere? Di perché i quattro libri mi sono piaciuti? O della scrittura della Ferrante: lineare, scorrevole, pulita, naturale? Dei temi che attraversano i libri: la donna, Napoli, le radici, l’amicizia, la genialità e il limite, la storia politica e culturale di più di mezzo secolo della nostra Italia, che fa da sfondo alle microstoria del Rione e dei suoi abitanti?
Di Lenù, che racconta, o di Lila, che è raccontata? Di Lenù, che riesce a raggiungere il sogno che le accomunava da bambine, il sogno di andare via e scrivere, o di Lila, che non riesce a muoversi da Napoli e ha il destino di essere scritta e una mente che va a mille, cui il mondo non riesce ad andare dietro, per cui lei non riesce ad andare dietro al mondo?
Delle loro bambole che aprono e chiudono la storia, segno di una svolta di Lila che possiamo solo arguire? Dei loro amori, dannati, tristi, destinati a replicarsi, a mischiarsi, a misurarsi con il disincanto e la delusione? Del femminismo, inseguito, brandito e poi rigettato per amore? Delle donne mangiate dai corpi dei loro uomini? Della violenza verbale, fisica, ideologica, psichica, sessuale; una violenza che quasi è una seconda lingua, un codice comune, a cui ci si piega? Dell’inganno della bellezza, della bellezza di Napoli, della bellezza violentata dal malaffare, dalla violenza?

Oppure dei libri che fanno da specchio alla vicenda di Lila e Lenù: libri letti e divorati, libri scritti e pubblicati, libri bruciati o gettati nel fiume, libri preferiti a bambole e condivisi, libri che fanno male e cambiano le storie, le vite, la storia? Del realismo, del mondo senza incanto, della disillusione, dei patti onesti con sé stessi? Del genio che non può nulla contro le condizioni di partenza? Della fiumana della storia che, in fondo, è sempre più forte dei talenti e delle ambizioni? Del ciclo dei vinti destinato a ripetersi? O delle parole, che le protagoniste inseguono e si condividono, si prestano, per dirsi, per dire il mondo, parole come scudo, parole come arma, parole come ponti?

Francesco Pacia

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