La Quaresima. Un’astensione per la vita è una riflessione del prof. Lanni Cristian. Altri articoli e meditazioni sulla Quaresima, dal punto di vista liturgico, sono nella nostra rubrica: ABC Liturgico.
Abbiamo già avuto modo di vedere come la Chiesa intenda il tempo della Quaresima, il suo significato più profondo, la sua derivazione, sia etimologica, sia scritturistica; lo sviluppo storico e le differenze liturgiche tra il rito ambrosiano e il rito romano. Nelle pagine che seguono, vedremo più approfonditamente alcune pratiche quaresimali legate alla penitenza e al digiuno.
Il Mercoledì delle Ceneri, l’astinenza e il digiuno
Secondo il rito romano, la Quaresima, ha inizio con il mercoledì delle ceneri, immediatamente successivo all’ultimo giorno del carnevale. Una prima osservazione proprio sul carnevale, etimologicamente «carnem levare», indica il tempo dopo cui i credenti devono “eliminare la carne” ovvero fare penitenza nel tempo quaresimale, per compartecipare alle sofferenze di Cristo. Nel mondo, con tradizioni differenti, ovunque è festeggiato l’ultimo giorno del carnevale, prima dell’inizio della Quaresima, ma vorremmo sottolineare la peculiarità del Regno Unito, di derivazione cattolica con ogni probabilità dell’epoca di Maria Stuarda, in cui questo giorno è chiamato Shrove Tuesday, dal verbo to shrive “confessarsi, ottenere l’assoluzione”, per sottolineare la pratica dei credenti di prepararsi al cammino quaresimale con il Sacramento della Confessione.
L’inizio della Quaresima ha come segno un rito molto particolare: l’imposizione delle Ceneri benedette sul capo dei fedeli. Durante la Celebrazione Eucaristica, «in capite ieiunii» o «feria IV cinerum», di omette l’atto penitenziale e dopo l’omelia, il Sacerdote, con una formula indicata dai Libri liturgici benedice le Ceneri [2] e le impone sul proprio e sul capo dei fedeli. È significativa la formula più antica del rituale, ovvero «Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris». Questa fa comprendere perfettamente il senso più profondo del rito delle Ceneri: sottolineare la caducità e la precarietà della vita terrena, esortando ad una conversione del cuore. La penitenza, appunto, una pratica profondamente biblica già richiamata nell’Antico Testamento quando ricorreva come strumento dell’uomo per placare l’ira divina [3], in occasioni di gravi calamità [4] oppure nell’imminenza di pericoli particolari e più in generale per ottenere dal Signore dei benefici [5]. Tuttavia, sempre l’opera penitenziale esterna sia accompagnata da un atteggiamento interiore di conversione, di condanna cioè e di distacco dal peccato e di tensione verso Dio. Non manca, nell’Antico Testamento, anche l’aspetto sociale della penitenza: le liturgie penitenziali dell’Antica Alleanza, infatti, non sono soltanto una presa di coscienza collettiva del peccato, ma costituiscono anche la condizione di appartenenza al Popolo di Dio. Questa medesima condizione di appartenenza e questa stessa presa di coscienza collettiva del peccato è richiesta anche come predisposizione interiore, significata dall’atto esteriore dell’imposizione delle Ceneri, all’inizio della Quaresima, perché la Chiesa «invita tutti i cristiani indistintamente a rispondere al precetto divino della penitenza con qualche atto volontario, al di fuori delle rinunce imposte dal peso della vita quotidiana» [6].
Il mercoledì delle Ceneri, con la sua liturgia penitenziale, oggi, ci interroga. La liturgia ci chiede quale sia nel mondo moderno il senso del digiuno e della penitenza. Certamente non vuole essere un segno esteriore di carattere estetico, quanto piuttosto profondamente interiore che grida ad un digiuno più profondo dell’astinenza dai cibi e dalle carni: il digiuno al peccato. La tradizione distingue tra digiuno e astinenza, ma in realtà queste due pratiche sono profondamente connesse l’una all’altra; il primo si riferisce alla quantità di cibo, il secondo a ciò che si mangia. Certamente il digiuno da solo non basta: come ebbe a dire il Santo Padre Francesco questa pia pratica si affianca, necessariamente, ad altri due segni che sono la carità e la preghiera [7], questo perché la rinuncia non è fine a se stessa e nemmeno una prova di mero dominio personale, come potrebbe essere per un atleta. Se desideriamo essere liberi da quanto ci opprime, il digiuno è sempre per tornare a Dio, per vivere la carità con tutto il cuore con tutta l’anima e per amare il prossimo come se stessi. Se dunque, il digiuno è un modo per tornare a Dio, spezzando le catene che ci vincolano al peccato, allora ecco che l’uomo contemporaneo può digiunare non solo dal cibo, ma con molti modi oltre a quelli offerti dalla tradizione. La rinuncia all’eccessività dei mezzi di comunicazione sociale, la moderazione di costumi quotidiani poco appropriati; tutto ciò consente di aprici a Dio e agli altri dedicando anche più spazio alla preghiera e di giungere davvero rinnovati ad accogliere il Risorto.
Le regole dell’astinenza e del digiuno nel Diritto della Chiesa
La pratica del digiuno, insieme con quella dell’astinenza, è regolata dal Codice di Diritto Canonico, che al can. 1251 stabilisce: «Si osservi l’astinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni della Conferenza episcopale, in tutti e singoli i venerdì dell’anno, eccetto che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità; l’astinenza e il digiuno, invece, il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì della Passione e Morte del Signore». Il can. 1252 chiarisce: «Alla legge dell’astinenza sono tenuti coloro che hanno compiuto il 14° anno di età; alla legge del digiuno, invece, tutti i maggiorenni fino al 60° anno iniziato. Tuttavia i pastori d’anime e i genitori si adoperino perché anche coloro che non sono tenuti alla legge del digiuno e dell’astinenza a motivo della minore età, siano formati al genuino senso della penitenza». Alle norme universali si aggiunga la Nota della Conferenza Episcopale Italiana, del 1994 che trae origine nella Delibera dell’aprile del 1985 [8], con la quale l’Assemblea Generale aveva stabilito l’osservanza delle norme circa l’astinenza e il digiuno del 27 luglio 1966 “fino a quando non siano date ulteriori determinazioni”. La “Nota”, predisposta dalla Commissione Episcopale per la liturgia fin dal maggio 1992, ha avuto un iter di due anni con una elaborazione di rinnovate stesure in seno alla stessa Commissione, la quale ha usufruito anche della collaborazione di esperti. Il testo, esaminato anche dalla Segreteria Generale, è stato sottoposto al Consiglio Episcopale Permanente nella sessione del 24-27 gennaio 1994.
Il Consiglio, con un ampio e approfondito dibattito, ha offerto diversi e ricchi contributi, demandando alla Commissione e alla Segreteria Generale il compito di rielaborare il testo secondo i suggerimenti emersi, al fine di sottoporre la “Nota” all’approvazione dell’Assemblea Generale. La XXXIX Assemblea Generale, del maggio 1994, ha approvato nei suoi contenuti e nella sua struttura globale il testo della “Nota” e, con la debita maggioranza dei due terzi, ha approvato le disposizioni normative contenute nel n. 13 del testo stesso, le quali, successivamente, hanno ottenuto la prescritta recognitio della Santa Sede. Le disposizioni normative trovano vigore nel disposto del can. 1249 C.J.C., ovvero nell’obbligo di tutti i fedeli di fare penitenza. Si fa menzione esplicita della Legge del digiuno, che obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po’ di cibo al mattino e alla sera, attenendosi, per la quantità e la qualità, alle consuetudini locali approvate, con rimando alla Costituzione Apostolica Paenitemini. Poi, della Legge dell’astinenza, che proibisce l’uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, ad un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi. Specificando, con richiamo al n. 110 di Sacrosanctum Concilium che digiuno e astinenza nel senso proprio vanno osservati il Mercoledì delle Ceneri o il primo venerdì di quaresima per il rito ambrosiano e il venerdì Santo. Degno di menzione il sesto punto del n. 13, laddove la Conferenza Episcopale stabilisce che è diritto del Parroco, per giusta causa e conformemente alle disposizioni dell’Ordinario, dispensare dalla penitenza o commutare quest’ultima in altre pratiche pie, ; lo stesso può anche il Superiore di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, se sono clericali di diritto pontificio, relativamente ai propri sudditi e agli altri che vivono giorno e notte nella loro casa [9].
Alcune precisazioni
La Chiesa impone ai fedeli, digiuno e astinenza penitenziale per il cammino quaresimale, in particolare l’astinenza dalle carni. Si è dubitato che questa legge potesse essere stata imposta nella storia dal Pontefici per favorire il commercio del pesce derivante dal porto di Civitavecchia, nello Stato Pontificio e che quindi ben poco questa pratica avesse a che fare con la liturgia e con la Scrittura. La risposta all’enigmatica quanto bizzarra domanda viene dal Monastero benedettino di Subiaco, nel secolo XIV. I monaci specificano che in verità il pesce raccomandato era quello d’acqua dolce più facilmente reperibile e meno costoso, ma soprattutto che non v’era alcuna disposizione pontificia in merito a questa pratica che, anzi, ha le sue radici nell’antichità della tradizione scritturistica veterotestamentaria. L’astinenza, in particolare dalla carne, risale all’Antico Testamento e per alcune circostanze allo stesso mondo pagano, anche se ha avuto ampio sviluppo nel monachesimo cristiano. Un’alimentazione rigorosa e severa combatteva le tentazioni e la concupiscenza, favorendo l’ascesi e il dominio spirituale del corpo. Sembra piuttosto opportuno ripetere che il digiuno con l’astinenza – cioè un pasto al giorno, evitando determinati cibi – è congiunto alla preghiera a Dio e all’elemosina: una triade che, già presente nell’Antico Testamento, contrassegna la pratica penitenziale della Chiesa da sempre. Ma perché queste tre espressioni rientrino nella prassi penitenziale della Chiesa devono avere un’anima autenticamente religiosa, anzi cristiana. È quanto si propone la su citata nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, sollecitando una convinta ripresa della prassi penitenziale tra i fedeli. Il digiuno dei cristiani trova il modello e il significato originale in Gesù. Il riferimento a Cristo e alla sua morte e risurrezione è essenziale per definire il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza come di ogni forma di mortificazione. Nella tradizione cristiana, sotto gli influssi monastici, le comunità hanno delineato forme concrete di penitenza, il digiuno con un solo pasto nella giornata, seguito dalla riunione serale per l’ascolto della parola di Dio e la preghiera comunitaria. Preghiera, digiuno e misericordia sono una cosa sola, «nessuno le divida», scrive san Pier Crisologo. Interessante quanto afferma San Leone Magno, ovvero che per un vero digiuno cristiano è necessario astenersi non solo dai cibi ma soprattutto dai peccati. Ma il contributo più importante rispetto alla richiesta di modifica della pastorale e delle motivazioni, l’ha dato senza dubbio il Concilio Ecumenico Vaticano II, il quale ha sottolineato molto più l’importanza delle opere di carità, di giustizia e di solidarietà. Inoltre, nella distribuzione dei tempi e dei giorni sono privilegiati il triduo pasquale, in particolare il Venerdì santo e il Mercoledì delle ceneri, oltre l’astinenza dalla carne nei venerdì dell’anno. E dunque, perché la Chiesa codifica la pratica del digiuno e dell’astinenza? La risposta la offre la Nota della Conferenza Episcopale, ma ancor più il Vangelo; attraverso la pratica penitenziale del digiuno e dell’astinenza la Chiesa vive l’invito di Gesù ai discepoli ad abbandonarsi alla provvidenza di Dio (conclude la nota pastorale) senza ansia per il cibo: «La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito… Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia… Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta» [10].
Prof. Cristian Lanni
[2] Le quali vengono tradizionalmente ottenute dai ramoscelli d’ulivo benedetti la Domenica della Palme dell’anno precedente.
[3] cfr. 1Sam 7,6; 1Re 21,20 e 27; Ger 36,9; Gio 3,4-5.
[4] cfr. 1Sam 31,13; 2 Sam 1,12; 2 Sam 3,35; Bar 1,3-5; Gdt 20,26.
[5] cfr. Gdt 4,8 e 12; Est 4,15-16; Sal 34,13; 2Cr 20,3.
[6] Paulus PP. VI, Constitutio Apostolica: Paenitemini, in AAS, LVIII (1966), III/181.
[7] cfr. Francesco PP., Messaggio per la Quaresima 2019.
[8] Notiziario CEI, 1985, 27.
[9] cfr. can. 1245 C.J.C.
[10] Lc 12,23.29.31.