La pluralità dei Riti nella Chiesa e il processo di formazione. Famiglie liturgiche e formazioni di tradizioni rituali è una riflessione del prof. Lanni Cristian. Altri argomenti sulla liturgia sono presenti nella nostra rubrica ABC Liturgico, curata sempre dal prof. Lanni.

Abbiamo avuto modo di scorrere, nel precedente articolo, una certa pluralità delle tradizioni rituali cattoliche e, successivamente, di poter avere un quadro storico dello sviluppo liturgico della Chiesa cattolica, nel corso dei secoli. Di seguito cercheremo di indagare quali siano le maggiori famiglie liturgiche cattoliche e di comprendere, poi, in che modo si sviluppi una tradizione rituale e il perché, ad oggi, il processo di formazione di nuove tradizioni possa considerarsi chiuso.

Le “famiglie liturgiche” cattoliche

Come abbiamo visto in precedenza, la storia dello sviluppo delle tradizioni rituali e liturgiche nella Chiesa Cattolica è complessa e legata alla territorialità ed alla cultura di una determinata Chiesa locale o gruppo di Chiese locali. I principali riti, o famiglie liturgiche, sono sei: latina, costantinopolitana (chiamata anche bizantina), alessandrina, siriaca occidentale (o antiochena), siriaca orientale (o caldea) e armena.

Il rito latino

La prima famiglia, ovvero il rito latino, è basato maggiormente sul rito romano, attualmente comprendente una forma ordinaria, cosiddetta novus ordo missae, ed una forma straordinaria, cosiddetta vetur ordo missae. Entrambi i riti, come si comprende dal motu proprio Traditiones Custodes [4], non costituiscono una dualità della lex orandi, fatto evidentemente erroneo, ma piuttosto una dualità nella sensibilità di un’unica lex orandi, espressione della sola lex credendi. Facente parte della famiglia liturgica latina, ma non romana, è il rito ambrosiano, utilizzato unicamente nell’Arcidiocesi di Milano, fatta eccezione di pochissime enclave al di fuori e altrettante pochissime all’interno che, per antica tradizione, seguono il rito romano. Il rito ambrosiano deriva dalla tradizione che si è stratificata nella liturgia milanese. La sua sopravvivenza vide molti critici, quando vennero soppressi altri riti locali,  Quando Papa Gregorio I, alla fine del VI secolo, modificò, riordinò ed estese a tutta la Chiesa occidentale la liturgia romana, il rito ambrosiano, data la grande importanza e il peso della Chiesa milanese di un tempo, riuscì a sopravvivere alla soppressione dei riti occidentali minori, insieme al rito mozarabico. La sua legittimazione definitiva si ebbe comunque con il Concilio di Trento; in tal senso occorre tener conto che il Papa Pio IV era milanese e che l’anima del Concilio fu il Vescovo di Milano Carlo Borromeo.

La celebrazione della Messa presenta gli stessi elementi della Messa del rito romano, ma alcuni di essi sono disposti diversamente. Lo scambio della pace, ad esempio, non è immediatamente prima della comunione dei fedeli, ma viene anticipato al termine della Liturgia della Parola, prima della preparazione dei doni. Altre minori differenze sono la mancanza dell’Agnus Dei e la triplice invocazione Kyrie eleison senza il Christe eleison presente nel rito romano. Il giorno di sabato inoltre non è considerato feriale ma festivo, seppur in modo minore rispetto alla domenica, in continuità con la tradizione ebraica. L’Avvento ambrosiano dura sei settimane, contro le quattro del rito romano, mentre la Quaresima inizia la domenica successiva al “mercoledì delle ceneri” con l’imposizione delle ceneri al termine della Messa festiva.

L’avvento termina con le feriae de Exceptato [5], che costituiscono in sostanza la novena di Natale. La Settimana Santa è chiamata Hebdomada Authentica [6], in quanto vi si celebrano gli eventi centrali della storia.

Il rito mozarabico

Abbiamo anche menzionato il rito mozarabico, o meglio ispano-mozarabico. Quest’ultimo è uno dei Riti formatisi nel corso dei secoli nelle diverse regioni in cui la Chiesa si è stabilita. Essi derivano da quella prima frazione del pane operata dagli Apostoli secondo l’invito ricevuto da Gesù per far memoria della sua morte e risurrezione, nella celebrazione dell’Eucaristia. Alla primitiva semplicità di quelle celebrazioni, si aggiunsero con il tempo nuovi elementi, quali le letture dal testo sacro, le preghiere e le invocazioni, differenziate a seconda dei tempi e dei luoghi. Sorsero così le forme diverse di celebrazione che oggi chiamiamo riti: i riti orientali, celebrati in lingua greca e altre lingue dell’Oriente; quelli occidentali, celebrati tutti in latino, ma diversi tra loro. Ricordiamo, tra questi ultimi, il romano, l’ambrosiano, il gallicano, il nord-africano, il bracarense e l’ispanico. Il Rito ispanico, quindi, è il modo utilizzato dalla Chiesa di Spagna per celebrare le azioni liturgiche durante i primi dieci secoli della sua storia. Usato all’inizio dai cristiani ispano-romani, si conservò anche sotto la dominazione dei visigoti, epoca nella quale i grandi Padri della Chiesa visigota lo arricchirono notevolmente, e sotto l’occupazione dei musulmani.

La Messa in rito ispanico è basata su uno schema fondamentale comune a tutte le liturgie: Liturgia della Parola, Preghiera Eucaristica, Rito di Comunione. Uno dei tratti peculiari della Messa ispana, tuttavia, è la parte posta tra la Liturgia della Parola e la Preghiera Eucaristica, e il sistema adottato nella sua composizione. Si tratta di un insieme di elementi di uso universale anche se distinti nella loro origine: l’offertorio, i dittici e il segno di pace. Il Rito ispano unì quei tre elementi ed incluse tra loro una serie di testi eucologici (orazioni) che danno coesione all’insieme e nel contempo distinguono con chiarezza i tre momenti di quella fase della celebrazione.

Essendo i dittici l’elemento tradizionale più sottolineato dai testi eucologici propri, tutta questa parte acquista la caratteristica di una professione solenne di comunione ecclesiale, con le preghiere sacerdotali e il dialogo tra diacono e popolo, e con il segno di pace, che qui è collocato prima della prece eucaristica, mentre nel Rito romano trova posto immediatamente prima della Comunione, dove il nostro Rito pone la professione di fede con la recita del Credo. Merita anche uno speciale accenno la frazione del Pane consacrato in nove pezzi, che il celebrante colloca sulla patena in forma di croce; la recita del Padre nostro è riservata al Presidente, anche se i fedeli ratificano ogni petizione con l’Amen cantato; non c’è elevazione dopo la consacrazione: viene fatta prima della benedizione e della comunione. Alla fine della Messa non c’è benedizione [7].

La liturgia costantinopolitana o bizantina viene utilizzata da 15 Chiese Cattoliche sui iuris e, precisamente: chiesa cattolica italo-greca [8]; chiesa greco–cattolica albanese; chiesa greco-cattolica bielorussa; chiesa greco-cattolica bulgara; chiesa greco-cattolica croata; chiesa greco-cattolica di Grecia [9]; chiesa greco-cattolica di Serbia e Montenegro; chiesa greco-cattolica melchita [10]; chiesa greco-cattolica rumena; chiesa greco-cattolica rutena [11] chiesa greco-cattolica russa; chiesa greco-cattolica slovacca; chiesa greco-cattolica ucraina [12];chiesa greco-cattolica ungherese.

Ucraina, Polonia, Stati Uniti, Canada e comunità ucraine nel mondo, non sussistono particolari differenze nelle celebrazioni liturgiche con le Chiese ortodosse. La Divina liturgia, Santa Messa del rito bizantino, è celebrata secondo la tradizione di quattro differenti Divine Liturgie (proprio come le Chiese ortodosse), ovvero quella di San Giovanni Crisostomo (formulario abituale), quella di San Basilio, l’Antica liturgia della Chiesa di Gerusalemme e la Liturgia dei Presantificati.

I cristiani del patriarcato di Alessandria rifiutarono la maggior parte delle definizioni del concilio di Calcedonia (451) e costituirono, come ad Antiochia, una Chiesa monofisita che conserverà il rito primitivo di Alessandria, per molti aspetti più vicino a Roma che a Bisanzio.

Riti principali

Attualmente si esprime in due riti principali: copto [13], che originariamente si esprimeva in greco (Anafora di S. Marco), ma dal secolo IX utilizza l’antica lingua egiziana, dando molto spazio all’arabo. L’anafora più diffusa è quella copta di S. Basilio, mentre un’altra di s. Gregorio di Nazianzo si usa solo nelle feste grandi del Signore. E poi il rito etiopico, nato da un ceppo misto alessandrino-siriaco-gerosolimitano, è squisitamente popolare e africano (uso del tamburo e della danza; si circoncidono i bambini prima del battesimo). Si deve probabilmente a questa sua forte inculturazione la sua sopravvivenza in mezzo a pressioni islamiche. Fa uso di circa 14 anafore (due di esse sono mariane, una delle quali inizia con le parole «dolce profumo») [14]. Abbiamo poi i due gruppi del siriaco, occidentale ed orientale. Il gruppo liturgico siro-occidentale, anch’esso legato alla matrice liturgica antiochena, è caratterizzato da uno sviluppo molto grande della poesia liturgica in cui si esprime tutta la teologia. Le espressioni più diffuse di questo gruppo sono: il rito giacobita, Dal nucleo liturgico bizantino-greco si staccò nel VI secolo la liturgia giacobita; essa tradusse la liturgia bizantina in siriaco (oggi si usa ampiamente anche l’arabo). Questo rito si caratterizza per l’ampiezza degli elementi gestuali e poetici (composizioni attribuite a S. Efrem il Siro).

Tutt’oggi fa uso di una ventina di anafore. Il rito maronita, che sorge tra le comunità monastiche della Siria centrale, nella valle dell’Oronte, e si ispira alla figura di un asceta del V secolo, Mar Maron. Non accettarono la bizantinizzazione e si dovettero rifugiare sui monti del Libano. Nel 1215 sancirono l’unione con la Chiesa di Roma professando la fede cattolica. Nel XVIII secolo questo rito subì infelici latinizzazioni. Oggi la lingua più usata è l’arabo e fa uso di circa quindici anafore. Il rito armeno, Ha origini molto antiche, all’inizio del IV secolo, con una lingua propria. Nel medioevo ci furono tentativi di unione con Bisanzio e con Roma (da qui una certa contaminazione bizantina e latina dei riti, che si caratterizzano tuttavia per magnificenza di apparato e finezza di esecuzione). La musica è tra le più affascinanti dell’Oriente, dove traspare la nobile melanconia di un popolo che ha incredibilmente sofferto.

Nella famiglia siro-orientale, riconosciamo uno sviluppo nei territori dell’altopiano mesopotamico, dove ancora si conservavano le antiche culture semitiche non influenzate dall’ellenismo proveniente da Costantinopoli. A motivo di una certa ostilità politica verso Bisanzio e per la difficoltà di comunicazione con la cultura ellenistica, non accettarono le risoluzioni del concilio di Efeso (431) e di Calcedonia (451) e rimasero prevalentemente sotto l’influenza di Nestorio e di Teodoro di Mopsuestia; esprimono quindi una teologia nestoriana. Sottolineiamo due liturgie differenti: siro-caldeo, la più arcaica delle tradizioni liturgiche cristiane ed ancora oggi ha una liturgia in lingua aramaica. Si sviluppò all’interno dell’Impero persiano e poi nel califfato di Bagdad (attuale Iraq). L’anafora eucaristica degli apostoli Addai e Mari è molto vicina alle berakot  giudaiche per la benedizione della mensa. Per l’ufficiatura si avvale delle composizioni di S. Efrem il Siro. In Iraq esiste una forte comunità cattolica di rito caldeo. E poi siro-malabarico.

Attraverso la via della seta, la liturgia siro-caldea si diffuse verso oriente fino alla Cina e all’India del sud (Kerala), dove si venera la tomba di S. Tommaso Apostolo. Con la conquista portoghese del sec. XVI questa liturgia subì una forte latinizzazione. Una parte di questi cristiani si staccò da Roma e col nome di Malankaresi, con un proprio rito, aderì al patriarcato siro-antiocheno. Pio XI nel 1934 permise ai cattolici Malabaresi il ripristino dell’antico rito caldeo. In fine la liturgia armena. La celebrazione liturgica del rito armeno in uso presso la Chiesa armeno-cattolica è piuttosto simile al rito romano e al rito bizantino. Il celebrante è assistito da un diacono, il cui ruolo è all’incirca simile a quello del diacono nel rito bizantino. All’inizio della celebrazione è prevista la recita del salmo 42, analogamente a quanto avviene nella forma straordinaria del rito romano.

Qui è recitata a versetti alternati tra il celebrante e il diacono. Le orazioni del diacono, cui il popolo risponde “Dio, abbi pietà di noi”, sono simili a quelle del rito bizantino. Sono previste due letture bibliche oltre al Vangelo. Il bacio della pace avviene invece prima della consacrazione (similmente a quanto avviene nel rito ambrosiano, in cui lo scambio della pace avviene prima dell’offertorio). La preghiera eucaristica è fissa come nella forma extraordinaria del rito romano , l’epiclesi segue la consacrazione. Prima della benedizione finale, è recitata una “preghiera universale”. Al termine della celebrazione, ma solo nelle solennità, si recita una preghiera per il Papa [15].

La chiusura dei processi formativi di tradizioni liturgiche. Perché?

La storia di queste multiforme ritualità è legata al riconoscimento delle tradizioni celebrative di comunità diverse tra loro, con sensibilità umane diverse e con accenti sacrali anche molto diversificati. Tutte tradizioni però che risalgono, nella loro genesi, a prima dell’anno mille, in certi casi anche molto prima. Poi, però, le Chiese di nuova nascita, a partire dal XV secolo, cioè dalle scoperte geografiche, non hanno avuto la possibilità di costruire nel tempo ritualità proprie, ma hanno assorbito il rito dei missionari che le avevano suscitate, praticamente sempre quello romano. Oggi, soprattutto in Europa e soprattutto nell’area del rito romano, da più parti si levano voci per una revisione della forma celebrativa della messa, richiesta molto trasversale in parecchie esperienze di ascolto sinodale. L’esigenza è di rendere maggiormente efficace il coinvolgimento effettivo dei partecipanti, affinché celebrare non resti un atto avulso dalla vita reale, ma lasci in esso un segno capace di rendere viva la fede anche fuori dalla celebrazione. Ma da più parti già si sono levate resistenze e distinguo, quasi sempre basate sulla necessità di mantenere la tradizione del rito romano.

L’interrogativo, dunque, non può evitarsi. Per quasi mille anni le tradizioni celebrative hanno potuto nascere e proliferare, permettendo una ricchezza che indubbiamente manifesta molto bene la cattolicità della fede, cioè la sua dimensione di raccolta integrale di tutte le forme espressive della fede in Cristo; ma improvvisamente, ad un certo punto della storia, questa creatività è stata dimenticata e si è imposta, invece, una sola forma celebrativa, senza permettere il sorgere di altre forme cattoliche. Come è accaduto questo? Alcuni affermano che se crediamo nell’incarnazione, ogni comunità deve essere radicata nell’umanità di chi la vive e le sue celebrazioni dovrebbero prendere le forme che quell’umanità sente e percepisce come “autoctone”, affinché in esse si possa esprimere la medesima fede, ma negli accenti diversi tipici di ogni cultura davvero credente. E quando la cultura e le forme espressive di quell’umanità cambiano, anche le forme celebrative dovrebbero risentirne. Tuttavia, riteniamo che questa interpretazione sia fuorviante e lesiva dell’unicità della fede che professiamo. Oltre che espressione della fede, la Liturgia è anche difesa della fede in quanto teologia pregata o teologia in ginocchio. La lex orandi è una via molto facile per introdurre nel sentire comune della fede del popolo di Dio elementi non corrispondenti alla Rivelazione e alla Tradizione. Da una preghiera fatta male e con contenuti impropri, ne deriverà inevitabilmente anche un modo di credere distorto e non in sintonia con la fede cattolica. Questa preoccupazione di salvaguardare la fede attraverso una corretta espressione della preghiera liturgica, ha spinto il Concilio a dire che neppure un sacerdote, di sua iniziativa, può aggiungere, togliere, alterare, sostituire, le parti costitutive della Liturgia. Non per questo vengono aboliti gli spazi di creatività: introduzioni, preghiera dei fedeli, omelia. Ma quale impegno si dovrà mettere perché questi interventi siano espressione della fede e non semplicemente espressioni di «chiacchieroni impreparati». Al di là di ogni equivoco, questa espressione è di S. Agostino e da lui attribuita a coloro che si avventuravano in improvvisazioni liturgiche senza averne la necessaria competenza.

Il fenomeno, pertanto, è abbastanza antico. Dobbiamo riconoscere che non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole e che anche ai nostri giorni le cose non vanno molto diversamente. Con la scusa del Concilio e appellandosi ad un falso concetto di “creatività” si vuol ad ogni costo “attualizzare” la Liturgia, almeno questi gli intenti migliori, portandola al popolo in maniera semplice e comprensibile. Non sempre però i risultati sono proporzionati alle premesse. Intanto si dimentica che la Liturgia è “dono” che Cristo, sacerdote eterno del Padre, fa alla sua Chiesa mediante lo Spirito Santo.

Per cui Cristo, nell’azione dello Spirito, resta l’unico e vero Liturgo della Chiesa. La Liturgia non è il banco di sperimentazione delle varie teorie pseudo-sociali di gruppuscoli cosiddetti impegnati o il teatrino di coloro che presumono di avere lo Spirito noleggiato al loro piacimento. La Liturgia, occorre ripeterlo, è “dono” da accettare nell’ascolto fedele della Parola che converte e nella risposta di azione di grazie al Padre che, senza nostro merito ma unicamente per la ricchezza del suo perdono, ci ammette a godere della sorte beata dei Santi per mezzo di Cristo nell’unità dello Spirito Santo. Si rilegga la conclusione del Nobis quoque nel Canone romano [“… non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono”] e la dossologia finale di ogni “canone”, cioè di ogni “regola” da imitare nell’azione liturgica. Ben venga il nuovo, purché sia anche valido nel contenuto, espressione della fede ecclesiale, bello nella forma, come si addice ai santi misteri. Ben venga il nuovo, purché sia anche ricco di dottrina e di preghiera e non vuota verbosità che polluisce da cuori incirconcisi. Come ci poniamo di fronte ai rimproveri del Qoèlet che dice: «Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano parche, poiché dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolti» [16].

Conclusione

Erratissima, dopo questo discorso, sarebbe la conclusione che, per non sbagliare, dobbiamo soltanto accettare quello che ci viene ammannito. Si vuol soltanto ribadire che è presunzione edificare cose nuove senza neppure avere la minima idea di come e di che cosa abbiano costruito coloro che prima di noi hanno tradotto in preghiera il deposito della fede. Un buon artigiano, un buon pittore e qualsiasi altro, hanno bisogno di un lento tirocinio prima di produrre l’opera d’arte.

È sempre necessaria, allora, una lettura attenta delle fonti liturgiche; saperne cogliere i valori; saperne ricercare i temi principali attraverso i quali si snoda la celebrazione del mistero di Cristo. Nella Liturgia non tutto è fatto, non tutto è sempre da fare: in questo senso il processo di formazione di nuove tradizioni rituali può considerarsi chiuso.

È chiusa la possibilità di ogni inventiva sciolta dalla dottrina e dalla Tradizione di unità della lex orandi che esprime l’unica lex credendi. E come quest’ultima è ormai da considerarsi conclusa nella Rivelazione, così anche la prima, se ne è espressione, deve considerarsi conclusa nei suoi fondamenti.

Prof. Cristian Lanni

Clicca qui per leggere le riflessioni di ABC Liturgico.

Note

[4] Franciscus PP., Litterae Apostolicae Motu Proprio data de usu librorum liturgicorum instaurationem Concilii Vaticani II antecedentem: Traditiones Custodes, in URL//: www.vatican.va.

[5] Ferie dell’Accolto.

[6] Settimana Autentica.

[7] cfr. Officium de Liturgicis Celebrationibus Summi Pontificis- Notitiae 1992, 404-408.

[8] Abbazia di Grottaferrata e diocesi di Lungro e Piana degli Albanesi, in Italia.

[9] Presente anche in Turchia.

[10] Siria, Libano, Israele, Palestina, Giordania, Iraq, Egitto e comunità mediorientali nel mondo.

[11] Eparchia di Mukačevo, Ucraina.

[12] Ucraina, Polonia, Stati Uniti, Canada e comunità ucraine nel mondo.

[13] Il termine copto ì deriva dalla parola araba qubt  e sta ad indicare, appunto, l’egiziano.

[14] Questa forte impronta mariana delle liturgia etiopica si riversa poi nell’uso quotidiano per cui le persone, incontrandosi, si salutano con: Maria ti ama!

[15] Per maggiori dettagli sulle liturgie, si veda: P. Giglioni, Le tradizioni liturgiche orientali e occidentali, Roma 1999.

[16] cfr. Qoèlet 5,1-2; cf Is 1,15; Sir 7,15; Mt 6,7; 7,21; 23,4; 1 Pt 4,7.

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