“Balbettano i vangeli nell’annunciare che Egli non è (più) lì, dove lo avevano posto. Balbettano con verbi che sanno di risveglio o di sollevarsi e profumano di passivo divino…”. Ci introduciamo al solenne Vangelo di Pasqua con la meditazione di Francesco Pacia, tra il vuoto, la corsa e un altrove…
Domenica di Pasqua – 31 marzo
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. (Gv 20, 1-9)
La corsa
Balbettano i vangeli nell’annunciare che Egli non è (più) lì, dove lo avevano posto. Balbettano con verbi che sanno di risveglio o di sollevarsi e profumano di passivo divino, mentre ricorrono a teorie di angeli, che non riescono a coprire l’inquietudine e le fughe, lo sgomento davanti all’assurdo della Sua corsa dal sepolcro. Neppure il Risorto in persona, che appare in alcuni racconti, ha la forza di vincere la ritrosia e la resistenza.
Rimane una certa fatica. Di comprensione, di vita, di gioia. Il Cenacolo, infatti, resta comunque chiuso, bloccato; la paura ancora trionfa e si avverte, dopo i giorni della Passione, un desiderio di dimenticare tutto: una tentazione che ci accomuna, in fondo, ai primi discepoli, esperti – noi e loro – di un chiuso tranquillo, di un finito pacifico, come è in fondo quella sensazione di sollievo che si respira alla fine del Venerdì Santo, con la sua certezza implacabile della morte e della fine.
La Pasqua, invece, annuncia un senza fine. È, perciò, faticosa e obbliga a uscire, a passare, attraversare, andare oltre. È pur sempre esodo e passaggio. Pur sempre festa di pellegrini di primavere, mendicanti implacabili di un approdo e un raccolto. Di un di più che va oltre la parola fine.
Il vuoto
È la festa di chi è pronto a sfidare le notti e inseguire i piccoli germogli di luce, come fa Maria di Magdala, donna dal cuore arpista che vuole svegliare l’aurora. Di chi è pronto a correre, come i due discepoli, e a mettersi sulla strada e scoprire, riscoprire ancora, che il Figlio dell’Uomo davvero non ha dove posare il capo, non vuole averlo, perché non può essere vinto dalla morte né addomesticato dai nostri compromessi e patti di vita tranquilla. Di chi è pronto a entrare nel sepolcro, a non fermarsi fuori o dentro, a sfondarlo, ad abitarne il vuoto. Accettare il suo non-senso. Perché il sepolcro, la morte, in fondo, non hanno inghiottito Chi ha amato sino alla fine. Non hanno vinto. Ha vinto Lui, che ha abbracciato il non-senso della morte e non ci ha fatto un epicureo patto di buon vicinato o di alleanza.
Ha vinto Lui. Ha vinto l’Amore. Ha vinto il dare la vita. L’essere-per. L’essere disposto a lasciarsi ferire. Ha vinto il povero, il mite, l’affamato e assetato di giustizia, il puro di cuore, l’operatore di pace, il perseguitato. Ha vinto Chi ha preso sul serio la vita sua e degli altri. Chi ha preso sul serio la morte, il male. Ha vinto Chi non ha fatto retorica ma è stato senso, parola.
Altrove
E se ha vinto Lui, noi possiamo provare sfidare le ombre più nere prima dell’alba, correre insieme incontro al vuoto spalancato dei sepolcri che a volte subiamo, a volte fabbrichiamo, a volte siamo, e del sepolcro che attende ognuno, ma come anticamera di un di più. Passarci con gli occhi aperti di Giovanni, Pietro e Maria che in tre dispiegano mezzo lessico greco della vista: per vedere, indagare, scrutare, osservare, passare al microscopio i segni che Lui lascia, delicati, primaverili, ordinari. Perché non ci ostiniamo a cercare cadaveri o a fermarci ad essi, ma piuttosto proviamo a disbrogliare le bende e i sudari, che dicono liberazione già avvenuta… e finalmente abitiamo i vuoti, che dicono di un altrove, verso cui andare. L’Altrove dove Lui abita.
Altrove, che è il giardino del pianto di Maria. Il Cenacolo della chiusura dei Dodici. La frustrazione di Cleopa e dell’altro discepolo sulla via di Emmaus. La barca ancora inconcludente di Pietro, che ha pescato invano una notte intera. La casa gravida di attesa di salvezza di Cornelio o la stanza a lutto di Tabitha, la ricerca dell’eunuco o la paralisi dell’uomo alla porta del tempio. L’ostinazione di Saulo e il viso di angelo di Stefano. La tua storia, la mia. Le macerie di Gaza, i letti degli ospedali, quella camera vuota a casa tua, il lutto, il non-senso. Il fallimento che ti corrode, la fioritura inattesa. Lì il Risorto abita. Lì regna con i segni pasquali del suo amore. Lì vuole che corriamo a indicarlo e incontrarlo, facendo risuonare il suo alleluia pasquale, che spalanca tutti i sepolcri ancora chiusi.
* Il testo è apparso su Kairós. Comunità vocazionale Diocesi di Nola, Anno II, n° 2 – 28 marzo 2024, p. 11.
Francesco Pacia
Per leggere un’altra delle nostre meditazioni pasquali, segui questo link: https://www.legraindeble.it/resurrezione/