Un midrash e un gospel

Midrash

Le scritture non lo dicono ma noi sappiamo – quasi per certo! – che Ghera il Beniaminita rimase alquanto turbato allorquando si rese conto che la destra di suo figlio Ehud era legata. E se ne era reso conto ben presto. Davanti al bimbo c’era un fico maturo? Lui allungava la sinistra, afferrava il frutto e se lo metteva in bocca tutto contento. Si trattava di lanciare un sasso contro una gazza invadente? Ancora la sinistra. E che lancio!

Sua madre, al contrario del padre, non solo non si mostrava preoccupata, ma contemplava quel bambino come si contempla un prodigio del cielo. «Grandi cose farà con lui l’Onnipotente» diceva sottovoce, come a voler proteggere una preziosa certezza. E intanto Ehud cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini della città di Ghilgal.

I compagni di giochi impararono ben presto a rispettare lui, e soprattutto il suo mancino che, nelle scazzottate tra ragazzi, non andava mai a vuoto e lasciava dolorose impronte sulle mascelle e vistosi lividi sugli occhi degli imprudenti che osavano sfidarlo o canzonarlo per quella sua insolita peculiarità. Non si pensi che Ehud fosse un violento (ricorreva alla forza solo per difendere se stesso e gli amici più cari). Era pittosto un ragazzo schivo, riservato, obbediente ai genitori che lo avevano educato a fuggire i vizi e le perversioni cui gli israeliti avevano iniziato ad abbandonarsi dopo la morte di Otnièl, figlio di Kenaz.

Lui li vedeva quei luridi avviarsi, in un primo tempo di soppiatto e poi via via sempre più spudoratamente, verso i templi di Baal e Astaroth per rendere culto agli dei di Moab. Rimase però all’oscuro sulla realtà di quei riti fino al giorno in cui vide il suo vicino di casa uscire il mattino presto conducendo con sé la figlia Aholibah sulla quale aveva, già da tempo, posato il suo sguardo. Di lei lo avevano colpito il viso color di luna, e quel suo modo gentile di muoversi con passi leggeri verso il pozzo, la sera. Sotto le pieghe della tunica intuiva un corpo sinuoso, educato alla danza.

Ma quel mattino i suoi movimenti erano innaturali, costretti, recalcitranti. Il cuore di Ehud si strinse in un bollente dolore e decise di seguire i due, a distanza, in modo da non essere visto. Di tanto in tanto Aholibah si fermava e il padre, con mosse brusche, la costringeva a riprendere il cammino.

Verso mezzogiorno raggiunsero il cerchio degli idoli dove undici pietre nere, elevate sulla sabbia, delimitavano uno spazio riservato ad abominevoli sacrifici. L’uomo ebbe almeno la decenza di tenersi alla larga da quel luogo impuro e raggiunse, poco distante, un’oasi nella quale zampillava acqua fresca. Qui, insieme alla figlia, entrò in una casa per riposare. Ehud si accovacciò sotto un vecchio ulivo. Tutti i suoi sensi erano all’erta: il sangue scorreva rapido, le tempie pulsavano. Trascorse lì la notte vegliando e pregando il Signore. Non appena giunse l’aurora a sbiadire le stelle, padre e figlia mossero dal loro rifugio. Lui a piedi, in groppa a un’asina lei. In poche ore raggiunsero la città maledetta di Gerico che, contravvenendo al comando del Signore, era stata quasi interamente ricostruita. Ne attraversarono le vie brulicanti di moabiti, edomiti e ammoniti e raggiunsero il ripugnante tempio degli dei stranieri.

Ehud rischiò più volte di perderli di vista in mezzo alla folla che sciamava attorno al porticato, ramificandosi tra casupole basse, banchi e tende improvvisate. In quella moltitudine si immerse anche lui, coprendosi il volto con un lembo del mantello e seguendo l’ombra di Aholibah che il sole proiettò maliziosamente sulla statua di Astaroth, pietrificata in una irriverente nudità. Approfittando della confusione raggiunse l’atrio dove gli si presentò una scena che mai avrebbe immaginato. Giovani donne scalze, con i capelli sciolti e coperte soltanto da leggere tuniche di lino, si accompagnavano alle sacerdotesse di Astaroth apparendo e scomparendo tra le colonne. Uomini di ogni età le seguivano bramosi all’interno del tempio, accerchiati da flautisti questuanti. Ma a colpirlo più di tutti fu un uomo esageratamente grasso che, circondato da servitori, si muoveva lentamente raccogliendo inchini, gesti di sottomissione e saluti cantilenati.

In mezzo a quel vociare ipnotico Ehud riuscì a distinguere qualche parola della sua lingua e, senza mai staccare lo sguardo da Aholibah e da suo padre, si avvicinò a un giovane israelita che, senza alcuna vergogna, contrattava con un mercante gebuseo, tirando sul prezzo per una ragazza dallo sguardo malizioso.

«Chi è quello?» chiese senza preamboli interrompendo la trattativa in corso e indicando con un cenno del capo l’uomo obeso. Il suo interlocutore, non poco infastidito, lo squadrò da capo a piedi e, per non perdere tempo, rispose altrettanto sbrigativamente: «È Eglon, re di Moab. Fattelo amico o stagli alla larga, perché è un capo potente e ambizioso».

Intanto il padre di Aholibah aveva affidato la figlia a una sacerdotessa che indossava una tunica scarlatta e stava confabulando con un corpulento egiziano. Era chiaro che cosa sarebbe accaduto. Ehud colse l’occasione della confusione creata da una piccola turba di amaleciti che aveva circondato il re di Moab, e si scagliò sul suo concittadino. Con tutta la forza del suo braccio mancino lo afferrò per la gola e lo sollevò da terra. L’egiziano, capita la situazione, si dileguò rapido come un serpente che si inabissa nella sabbia.

«Chiama tua figlia e andiamocene di qua, se vuoi tornare vivo a Ghilgal». Il padre di Aholibah, nonostante il mantello che ne ricopriva parzialmente il volto, riconobbe il figlio di Ghera e obbedì al comando.

Solo quando furono fuori dalla città, lontano da occhi indiscreti e dal raggio d’azione delle guardie del tempio, Ehud ruppe il silenzio sfogando tutta la sua ira: «Sei la vergogna di Israele, avresti venduto tua figlia agli dei stranieri e tu stesso saresti entrato nel tempio Astaroth per compiervi abomini. Risparmio la tua vita solo perché sei il padre della donna che sto per chiederti in sposa. Ed è chiaro che non accetterò un rifiuto». Aholibah singhiozzava sul dorso della mula, ma le sue era lacrime liberatorie. Il suo sguardo si posò lieve in quello di Ehud e vi riposò.

Le scritture non lo dicono ma noi sappiamo – quasi per certo! – che il loro fu un matrimonio molto felice, e che il padre di lei, ottenuto il perdono della figlia, tornò ad adorare il Signore e a rispettarne le leggi. Ma non così i suoi concittadini. E il Signore – questo le scritture lo dicono! –rese forte Eglon, re di Moab, contro Israele, perché facevano ciò che è male agli occhi del Signore. Eglon radunò intorno a sé gli Ammoniti e gli Amaleciti, fece una spedizione contro Israele, lo batté e occuparono la città delle palme. Gli Israeliti furono servi di Eglon. Poi gridarono al Signore invocandone l’aiuto. E il Signore fece sorgere per loro un salvatore.

Ehud assassina il re Eglon – Miniatura da un manoscritto del 1360
Foto da Wikimedia Commons

Le scritture non lo dicono ma noi sappiamo – quasi per certo! – che Ehud non aveva preso parte alla battaglia per difendere Ghilgal e la sua gente perché non possedeva una spada, ma soprattutto perché non voleva mescolarsi con gli israeliti che avevano voltato le spalle al Signore, per dedicarsi agli abomini degli dei stranieri. Fu sua moglie a convincerlo che era giunto il tempo di agire: «Guarda il tuo popolo oppresso. Ascolta il grido della sua preghiera. Non chiudere l’orecchio al pianto delle madri che non riescono a sfamare i loro figli. Il Signore di Israele ha scelto il tuo braccio sinistro per liberarci».

Ehud, che teneva in altissima considerazione i pensieri e le parole di Aholibah, non le oppose un rifiuto e subito partì per raccogliere, dalle tribù di Israele, un gruppo di giovani, scelti non secondo la loro forza, ma secondo la purezza del loro cuore. Li condusse in Efraim e in quella regione armò un esercito con spade lunghe e robuste. Per sé forgiò Chereb, una lama a due tagli, lunga poco più di un cubito. Vi lavorò personalmente per molte settimane, fondendo più volte il bronzo fino ad ottenere un’arma leggera che levigò con cura e temprò nel fuoco e nell’acqua, non trascurando neppure l’elsa che volle stretta ma maneggevole. Un’altra lama forgiò ancora per sé, ma l’affidò al più fidato dei suo generali, per utilizzarla quando sarebbe giunto il momento opportuno.

Era giunto, nel frattempo, il tempo stabilito per il tributo annuale, che gli israeliti avrebbero dovuto presentare allo stesso Eglon, re di Moab, che aveva preso dimora a Gerico. Molti avevano ancora negli occhi la furia devastatrice dei cavalieri ammoniti e la morte che, aggrappata alle frecce degli arcieri amaleciti, era piovuta dall’alto sui migliori tra i figli di Abramo. Non fu quindi difficile per Ehud ottenere il comando della spedizione. Decise di portare con sé solo servitori e anziani guerrieri ormai inoffensivi.

Il giorno della partenza, sulle alture di Efraim la sua figura si stagliava imponente contro i primi raggi del sole. Il viso fiero, il cuore determinato. La mano sinistra, appoggiata sul su fianco destro, accarezzava Chereb, la vendetta del Signore.

Gospel

Il “paf” appiccicoso di qualche schiaffo moschicida interrompeva di tanto in tanto il chiacchiericcio – sottovoce, sia chiaro – dei fedeli stipati nella chiesa di Saint Louis per il sermone domenicale. Si era venuta a creare, già da qualche giorno, una certa attesa per l’arrivo di un nuovo predicatore. Qualcuno lo aveva visto sbarcare al piccolo molo che falciava la corrente sonnacchiosa del Waxahatchee Creek, e ne aveva parlato in giro.

«Viene dalla città. Ha studiato».
«Dicono che conosca a memoria tutta la Bibbia».
«Antico e Nuovo testamento?»
«Sì, Antico e Nuovo. Da “In principio” fino all’ultima sillaba dell’Apocalisse».
«I bianchi non lo possono vedere. È uno con gli attributi. Lo hanno già pestato più di una volta, ma lui niente. Tira avanti senza abbassare la testa».
«Sarà mica pericoloso averlo qui?»
«Non più pericoloso che vivere qui».

E avanti in questa maniera. Botta e risposta per ingannare l’attesa. Intanto nessuno si era accorto che il reverendo Abraham Jones aveva fatto il suo ingresso dalla porta principale (quella volta si era aperta senza nemmeno un cigolio). Il primo ad accorgersene era stato il pianista Little Tom. Con rapidi cenni aveva fatto alzare il coro intonando, senza troppo convinzione, un alleluia di repertorio.

L’assemblea si era riscossa dal torpore nel quale galleggiava ormai da più di mezz’ora e aveva gettato lo sguardo su quell’uomo che «veniva da fuori», seguendolo lungo la navata fin sul pulpito dove lui era salito con leggerezza. Appoggiata sul leggio una grossa bibbia rilegata in pelle, aveva fissato i suoi occhi negli occhi di quella gente. Erano donne con bambini, ragazzi e ragazze, uomini ancora forti, e altri ormai piegati dagli anni, dalla fatica e dalle bastonate. Il viso del reverendo Jones era austero, la pelle lucida come ebano, la barba rada. Difficile attribuirgli un’età precisa.

«Fratelli – la sua voce era quella dell’arcangelo Gabriele! –, voi conoscete la storia di Ehud il mancino, figlio di Ghera?»
Silenzio.
«Fratelli – la sua voce era quella del ben più combattivo arcangelo Michele! –, voi conoscete la storia di Ehud il mancino, figlio di Ghera?»
Silenzio ancora.
«Fratelli – ora la sua voce era quella delle trombe del giorno del giudizio! –, voi conoscete la storia di Ehud il mancino, figlio di Ghera?»
«Nossignore», rispose un negro grande e grosso che indossava un gilet giallo recuperato chissà dove.
«Mai sentito nominare», gli fece eco un ragazzetto smilzo dallo sguardo sveglio.
«Mai sentito».
«Chi è?»
«Dicci chi è questo Ehud!»
L’assemblea stava iniziando a svegliarsi.
«Dite “amen”, fratelli, se volete che vi racconti la storia di Ehud il mancino».
«Amen, fratello».
«Amen».
E qui il pianista aveva accennato due note cui era seguito un “Aaaaaamen” cantato, e ripetuto fino a che il reverendo sollevando una mano – la sinistra – aveva riottenuto il silenzio.

«Fratelli, gli Israeliti nella terra promessa avevano voltato le spalle al Signore e il Signore li mise nelle mani di un re ricco, prepotente, violento e anche molto grasso che si ingozzava dal mattino alla sera. E quindi come era questo re?»
«Grasso», aveva risposto d’istinto una bambina smunta, persa in un vestito rosa che non avrebbe riempito almeno per i prossimi due anni.
«Molto grasso, come i padroni bianchi», aveva azzardato un giovanotto muscoloso e incline alle battute di spirito.
«Esatto, fratello. E allora che cosa fecero gli israeliti?»
«Che cosa?», lo interrogò in coro l’intera congregazione.
«Fratelli, gli israeliti si pentirono del male commesso, gridarono al Signore e il Signore fece sorgere per loro un salvatore, Ehud,
figlio di Ghera, che era mancino».
«I mancini non sono buoni a nulla», sbotto dalla prima fila una vecchia negra con un occhio gonfio e una cicatrice scavata sulla fronte.
«Ti sbagli, sorella. Ti sbagli di grosso, perché Ehud era un uomo valoroso e astuto. Lui era il mancino di Dio. E sapete che cosa fece quest’uomo?»
«Non lo sappiamo, diccelo tu», lo aveva incoraggiato un negro coi capelli grigi rannicchiato nel terzo banco.
«Certo, fratelli, che ve lo dico. Ehud si fece una spada a due tagli, lunga così». E con le mani aveva indicato la misura di una trota, come fanno i pescatori bugiardi quando tirano su un pesce gatto di pochi centimetri e poi, mentendo spudoratamente, lo raccontano agli amici per farsi belli.
«Questa spada se la cinse sotto la veste, al fianco destro. Poi presentò il tributo al re grasso e se ne ripartì con gli israeliti. A testa bassa. Come fanno i servi. Voi lo sapete, vero, come fanno i servi? Certo che lo sapete! E così pure quegli uomini lo sapevano. Ma sulla via di casa, presso uno schifoso luogo di culto pagano, Ehud si congedò dai suoi e tornò indietro».
Tra il reverendo Abraham Jones e la congregazione della chiesa di Sait Luis l’intesa vibrava come un canto liberato al tramonto in un campo di cotone.
«In breve Ehud fu al cospetto del re grasso e davanti agli occhi gli passarono tutte le violenze, tutti i soprusi, tutte le angherie che costui aveva perpetrato ai danni del suo popolo», e così dicendo il reverendo aveva sollevato in alto la spessa Bibbia rilegata in pelle. Le facce dei fedeli si erano fatte, se possibile, ancora più scure, ribollenti di rabbia, più di una rigata da grosse lacrime.
«A nessuna delle guardie era passato per la mente di controllare il fianco destro di quell’uomo. Le spade sempre stavano infoderate su quello sinistro. Non c’erano mancini guerrieri nell’esercito del re grasso. Dunque Ehud giunse armato davanti a quel tiranno. “Ho una cosa da dirti in segreto”, disse l’israelita e il re grasso, incuriosito, fece uscire tutti dalla sala del trono e, con uno sforzo, si alzò in piedi. E che cosa fece allora Ehud?»
«Trafisse quel maiale!», aveva gridato una voce roca. E subito il coro era partito con un Osannanellaltodeicieli. Tutti i negri assiepati nella chiesa cantavano a squarciagola accompagnando l’inno sacro con il battito delle mani, e pestando i piedi sul pavimento di assi.
«Sì, fratelli! Ehud, allungata la mano sinistra, trasse la spada dal suo fianco e gliela piantò nel ventre. Anche l’elsa entrò con la lama e il grasso si richiuse intorno alla spada. E lui, senza estrargli la spada dal ventre, uscì dal buco del cesso».
I bambini avevano granato gli occhi. Qualcuno rideva sotto i baffi: «Il reverendo ha detto cesso!»
«Sì, fratelli, proprio dal buco del cesso. E passando poi dal portico chiuse i battenti del piano superiore, dove stava il trono del re grasso, e tirò il chiavistello. Quando fu uscito, vennero i servi, i quali videro che i battenti del piano superiore erano sprangati. E loro pensarono che il re grasso si fosse ritirato per i suoi bisogni. Aspettarono, e aspettarono ancora fino a essere inquieti, ma quegli non apriva i battenti. Allora presero la chiave, aprirono, ed ecco che il loro signore era steso per terra. Morto stecchito».
«Amen», lo aveva interrotto la congregazione ad una sola voce.
«Intanto Ehud era fuggito e, ripercorrendo a ritroso la via che lo aveva portato fin là, era giunto sulle montagne di Efraim. E lì giunto che cosa fece?»
«Che cosa fece?»
«Sì, dicci che cosa fece il mancino!»
«Suonò il corno e gli Israeliti scesero con lui dalle montagne ed egli si mise alla loro testa. E disse: “Seguitemi, perché il Signore vi ha consegnato nelle mani i Moabiti, vostri nemici”. Quelli scesero dopo di lui, occuparono i guadi del Giordano e sconfissero diecimila Moabiti, tutti robusti e valorosi; non ne scampò neppure uno».
A quelle parole il coro aveva riattaccato l’alleluia, ma ora con un piglio diverso. Era una musica che si faceva strada attraverso le ferite, quelle ancora fresche e quelle cicatrizzate da anni, e si tuffava nelle vene portando a quei cuori una nuova speranza.
«In quel giorno, fratelli – aveva ripreso il reverendo Jones, ora visibilmente commosso -, in quel giorno grazie a Ehud, il mancino di Dio, l’esercito del re grasso fu umiliato». Poi, abbassando il tono della voce, aveva concluso: «e la terra rimase tranquilla per ottant’anni».

Durante tutto il sermone un solo negro non aveva mai aperto bocca, né per parlare, né per unirsi al coro. Si chiamava Elia ed era rimasto muto e fermo al suo posto. Ma ora, mentre tutta la congregazione cantava “Go down, Moses”, aveva iniziato a muovere le labbra. Poco sotto al suo cuore, che martellava come non mai, sentiva il peso di un vecchio revolver, che da qualche tempo portava furtivamente con sé, infilato nella tasca interna della giacca della domenica. E sull’impugnatura del revolver, come si fa per un giuramento solenne, aveva portato, tremante ma determinata, la mano. Quella sinistra.

No more shall they in bondage toil,
Let my people go,
Let them come out with Egypt’s spoil,
Let my people go.
Go down, Moses…

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Patrizio Righero

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