Lo spazio fra parola e realtà nell’ottava nove
Dimmi, disegnatore del deserto, geometra delle sabbie arabiche, la furia sfrenata delle linee ha davvero ragione del vento? — Non mi tocca la trepidazione dei suoi giudaici affanni; dal balbettio lui modella l’esperienza, dall’esperienza beve il balbettio.
Proseguiamo nella lettura del poeta Mandel’štam attraverso la sua nona ottava (per rileggere la scorsa meditazione, clicca qui). L’immagine sottesa a tutta la poesia è quella di un tribunale: uno il giudice, due gli imputati. Chi parla, verso per verso, è il giudice. Nella prima strofa si rivolge al primo imputato, il «disegnatore del deserto», chiamato ancora «geometra delle sabbie arabiche». Nella seconda strofa si vede, invece, un doppio movimento: prima il giudice parla al secondo imputato, il «lui» del v. 7, poi parla di nuovo al «disegnatore del deserto», esprimendo, però, un giudizio sulla capacità agentiva del secondo imputato.
Il vento del deserto
Per capire l’identità dei personaggi in scena, è necessario comprendere cosa vuol dire, per Mandel’štam, il vento del deserto. Scrive a tal proposito sua moglie Nadezda: «Il vento del deserto è ciò che conosce lo spazio – spazio aperto, senza ostacoli. Nei versi sullo spazio c’è la definizione del lavoro cognitivo del poeta: la relazione tra esperienza e balbettio». Lo spazio disegnato dal vento del deserto identifica il lavoro di quel lui scritto al v. 7, del secondo imputato. Definisce il poeta. È il balbettio che dà forma all’esperienza e, in un secondo movimento, è l’esperienza il nutrimento del singulto poetico.
Il disegnatore del deserto
Chi è, a questo punto, il primo imputato, quel «disegnatore del deserto» che compare sin dal v. 1 della poesia? Il disegnatore-geometra è il teorico, colui che vuole comprendere la realtà tutta nella struttura della propria mente. È l’uomo che concentra nella «furia sfrenata delle linee» il vento del deserto, cioè la totalità del reale, lo spazio dell’esperienza. Ma quelle sabbie arabiche di cui cerca di trovare la quadra, si fanno senso solo oltre l’esperienza, laddove parola e realtà si congiungono, nello spazio edenico della creazione. E in quello spazio non c’è posto per gli affanni giudaici del geometra, per quella trepidazione che vuole compiersi nell’incompiutezza, che invece di lasciarsi fare, si fa da sé.
La colpa
Qual è, allora, la colpa che accomuna il destino dei personaggi in tribunale? È il peccato umano, la colpa originale, la frattura che separa l’uomo dalla conoscenza del Vero. Il giudice-poeta che inarca la sua parola sugli accusati ha le sembianze di Dio, del Dio buono, conoscitore dell’Eden e dell’uomo e che, senza condanna, vuole passeggiare ancora e per sempre con la sua creatura nel giardino del Paradiso.
Elisabetta