Commento al vangelo della V Domenica di Pasqua
Fedele ogni sua opera
Fedele ogni sua opera (Sal 33,4). È questo versetto del Salmo responsoriale che ci dà la chiave di lettura della Parola di Dio di questa quinta Domenica di Pasqua. L’opera di Dio è fedele: non si stanca, non viene meno, è presente anche quando noi non la notiamo. È la prima lettura a spiegarci cosa questo significhi concretamente: gli apostoli a un certo punto non furono più in grado di occuparsi da soli della crescente comunità cristiana. Si riunirono allora e decisero di nominare i diaconi. Gesù non aveva mai detto loro esplicitamente, di persona, che sarebbe stato necessario prendere quella decisione. Eppure la Chiesa e gli apostoli non ebbero mai a dubitare che tale disposizione presa di loro iniziativa non corrispondesse alla volontà di Dio e di Gesù. Come mai?
Proprio perché fedele è il Signore nella sua opera. Perché la realtà è il primo e più importante Vangelo. Ancora più importante, se vogliamo, dei quattro Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Senza il Vangelo della realtà, se non ci facciamo colpire dal Vangelo dei fatti e delle evidenze, non potremo mai ascoltare con il cuore gli altri quattro. Se non ascoltiamo il nostro cuore, il nostro desiderio, se non andiamo a fondo, alla ricerca del senso vero della vita e della realtà, se non ci interroghiamo sul nostro destino e la nostra salvezza, a che pro leggere questi quattro Vangeli che ci raccontano di Gesù?
Cosa basta?
Ecco cosa fecero dunque gli apostoli: hanno capito di essere “sacerdoti per sempre” come Cristo Signore, al pari di tutti i cristiani e di tutta la Chiesa, come dice san Paolo nella seconda lettura, ed in virtù di questa realtà, di questo fatto, hanno preso una decisione con la pretesa che Cristo, che Dio vi stesse partecipando. Per questo Gesù, rispondendo a Filippo, nel Vangelo, si richiama alle opere. «Mostraci il Padre e ci basta». Ma come, Filippo, cosa può bastare? Come si può chiedere che qualcosa basti? È proprio se qualcosa non basta che il Padre si mostra. Ma nulla deve mai bastare, perché quando basta significa che è morto il desiderio, che è finita la ricerca, che la vita non è più accesa dell’amore di Dio.
Gesù richiama Filippo alle opere perché lo richiama all’infinita bellezza che Dio dispiega attorno a lui in ogni momento. Perché la vocazione non è aggiungere un qualcosa a ciò che già c’è. La fede non è fede reale, come l’amore non è amore reale, se è compensatorio. Non si può amare Dio perché se ne ha bisogno, perché quando dovesse finire il bisogno avrebbe fine anche l’amore. Non si può dire “questo e tanto basta”, nemmeno se il “questo” fosse il Padre, perché sarebbe riduttivo, perché sarebbe finto.
Perché non ci basti mai
No. Amare e cercare Dio, e accogliere la propria vocazione, non significa cercare ciò che non c’è come se ciò che si ha non fosse sufficiente, ma accorgersi di una realtà che c’è. L’eventuale “mancanza” che si sente è una nostalgia di qualcosa che ci manca perché ancora non l’abbiamo vista, non ne abbiamo preso consapevolezza. E qualora questa nostalgia mancasse è perché ci siamo adagiati sulla barca in un momento di calma e bonaccia. Ma quando dovesse tornare la tempesta, torneremmo ad essere in balia delle onde e a gridare «Cristo, perché dormi e non intervieni?».
Accorgiamoci della presenza di Dio. Non perché questo ci basti, ma perché non ci basti mai. Fino a raggiungere realmente, dopo la morte, nella nostra Pasqua, la Casa del Padre.
Giuseppe Scattolini