Contemplare il mistero della morte del Signore esige la capacità di entrare e lasciarsi condurre al cuore di un rituale antico di memoria che il Venerdì Santo ci ha tramandato nei secoli attraverso la Tradizione della Chiesa. Si tratta di un memoriale vivo e vivificante per ogni fedele che si accosta alla meditazione di questo evento della storia della salvezza. Ogni tradizione si radica sull’esperienza di uomini e donne che, attraverso la loro vita e la loro testimonianza, rendono possibile la trasmissione della fede ancora oggi, proprio come avvenne ai tempi di Gesù, il Re trafitto.

In un contesto credente in cui spesso, oggi – si assiste a rigidi ed esteriori “tradizionalismi” che profumano di un incenso carico solo di futile e talvolta carnevalesca esteriorità – portare al cuore il significato della reale memoria di fede può aiutarci a riscoprire il senso di una chiamata all’amore, individuale e collettiva. Credere, infatti, presuppone un’esperienza interiore che coinvolga prima di tutto la nostra capacità di memoria, di riportare al cuore un incontro che ha segnato la nostra interiorità o, se ciò non fosse ancora avvenuto, suscitarlo in noi e negli altri, attraverso di noi.

I riti che celebrano il Triduo Pasquale ci fanno rivivere ogni anno un frammento della vita di Cristo, non per folklore popolare, ma per ricordarci dove ha avuto origine la nostra fede, dove è scaturita la scintilla che ha generato una moltitudine di credenti, un oceano di umanità redenta. Il passato ci ha trasmesso ciò che ancora oggi celebriamo, in virtù del comandamento del Maestro di “fare in memoria di Lui”. Il passato ha i suoi volti, le sue esperienze incarnate, la vitalità che ancora emerge nell’oggi della Chiesa.

Il Diario di Egeria

A questo proposito è bello ricordare uno dei diari di viaggio più particolareggiati e avvincenti della tarda antichità, il Diario di Egeria che, tra il 381 e il 384 si recò dalla Spagna in Terra Santa per compiervi un pellegrinaggio. Si tratta di un testo latino che costituisce un unicum nel panorama letterario antico. L’autrice narra le sue impressioni di pellegrina alle sue compagne lontane e lo fa in forma epistolare, raccontando loro il dono che il Signore le ha concesso di vivere nel calcare i luoghi della sua esistenza terrena.

L’Itinerarium Egeriae ha il suo culmine nel racconto dei giorni della Passione, con uno sguardo più dettagliato e ricco di emozioni nel narrare le liturgie che caratterizzano il Venerdì Santo come un momento di altissima partecipazione emotiva. Il luogo palpitante di Gerusalemme è proprio il Calvario, chiamato dalla pellegrina «la Croce». All’alba del venerdì si raggiunge il Golgota per rievocare l’episodio dell’incontro di Cristo con Pilato e rendere poi omaggio alle reliquie della croce. All’ora nona si legge il testo della passione secondo Giovanni e si ricorda la passio Christi in tutta la sua dinamica, attraverso anche le letture veterotestamentarie, come ancora oggi la Chiesa celebra durante l’azione liturgica e l’adorazione della Santa Croce. Immersi nell’ascolto del racconto giovanneo noi, oggi, proprio come Egeria nell’antichità, siamo interpellati ad accogliere il mistero della morte e a far tesoro del dono dell’amore.

Quale è la regalità di Cristo?

Tema del dialogo tra Gesù e Pilato è la regalità. Subito, però, Gesù mostrerà al prefetto romano che il regno a cui egli appartiene e di cui detiene il dominio non è di questo mondo. Vi regnano, infatti, due leggi fondamentali: non si combatte per garantirne la pace anzi, si opta per una resa che è offerta di sé e anelito di fraternità nuova; e colui che guida col suo servizio questo regno riceve gloria dall’umiltà e per questo è testimone di verità. Gesù stesso, parlando della sua gloria, aveva già preparato i discepoli nel cenacolo quando, subito dopo l’uscita di Giuda aveva affermato:

«Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato,
e anche Dio è stato glorificato in lu
i» (Gv 13,31).

Quale gloria si può riscuotere nell’essere traditi dagli amici? Eppure, quella gloria sarà la stessa che egli riceverà al momento della flagellazione quando i soldati, carichi di risentimento e brutalità, si faranno beffe del figlio di Dio, diventato la caricatura di un re, oggetto dello scherno e della violenza più inaudita. Questa gloria Gesù, con fedeltà e mitezza, la porterà a compimento sulla croce. È un re, eppure il suo regno fatica ad instaurarsi in questo mondo, perché stenta ad entrare nelle logiche umane. Paradossalmente, però, l’uomo-Dio Gesù, non ha faticato per ben trentatré anni
ad incarnarsi in tali logiche, nella realtà del suo momento storico, che egli ha assunto fino alla carne e al sangue. Guardando l’iscrizione composta da Pilato per essere apposta sulla croce, leggiamo un riassunto proprio di questa presa in carico di Cristo, di tutta la sua realtà umana e terrena.

Secondo quanto narrato da Egeria nel suo diario, il culmine delle celebrazioni della passione era raggiunto nell’adorazione della reliquia della santa croce. Un frammento del legno sacro con la sua insegna erano posti su una tavola. Alla presenza del Vescovo, seduto in cattedra, veniva sistemato un tavolo, coperto da un panno, intorno al quale si disponevano i diaconi. Qui si poggiava un cofanetto d’argento contenente la reliquia, che era esposta insieme all’iscrizione, come descrive la stessa Egeria: «ponitur in mensa tam lignum crucis quam titulus». I fedeli passavano uno alla volta per baciare il santo legno.
Pilato scrive l’insegna e lo fa in tre lingue: ebraico, latino e greco. Vuole raggiungere l’universalità, si sta svolgendo un evento nuovo: questo re muore, muore per tutti, muore per la verità.

È l’evento della verità stessa che si lascia crocifiggere. Il nazareno di Betlemme, proprio come suo padre Giuseppe, è l’uomo pellegrino viandante d’amore, è stato esule in Egitto, ha percorso la decapoli, ha lambito i litorali pagani e vi ha incontrato la fede più grande. Missionario di regalità, è chiamato dal potere occupante romano “Re dei Giudei”, un fregio iscritto a ornamento di un patibolo, ma che i Giudei rifiutano, non solo perché da Nazaret non giunge niente di buono, ma anche perché il Messia dovrà ricostituire ogni cosa con potenza e qui, invece, c’è solo un agnello muto e nudo condotto al macello.

Nessuno di loro vuole riconoscersi in un condannato a morte, un condannato che loro stessi non hanno avuto il coraggio di condannare, usando l’odiata autorità romana per compiere i loro disegni di disperata sopravvivenza. Sì, perché «è conveniente che un solo uomo muoia per il popolo» (Gv 18,14). Come fa riflettere questa espressione del sommo sacerdote Caifa se si pensa che proprio da parte di un uomo così deciso e lucido, Giovanni non riporta neanche una parola d’accusa, durante il processo religioso.

L’autore omette, il narratore tace, l’imputato parla con verità, ma riceve schiaffi. Noi, lettori fedeli tendiamo l’orecchio e contempliamo con gli occhi del cuore:
Gesù è il rifiuto, il rifiuto di un popolo smarrito, l’emblema di tutti i rifiuti e rifiutati della storia. È l’emblema dell’indifferenza, dell’assenza di posizione coraggiosa e consapevole, l’emblema di una religiosità settaria che ha escluso Dio dal cuore, che ancora oggi parla a noi e ad ogni nostra irriconoscente capacità di ri-conoscerci figli e fratelli di quel Re. Ma proprio perché si farà simbolo del nostro peccato, potrà condurci alla salvezza. Il Re si avvia verso il Gòlgota per essere crocifisso perché, secondo l’uso romano, ciò avverrà fuori della città.

Anche Egeria, nella sua esperienza, compirà un viaggio di allontanamento dal centro, un viaggio di “uscita” dall’urbe. Quando arriva a Gerusalemme, la pratica del pellegrinaggio cristiano nella terra di Gesù è ben consolidata. Tuttavia, mentre nei primi tre secoli del cristianesimo le destinazioni dei viaggi spirituali vanno verso Roma, dove è possibile venerare le tombe di Pietro, Paolo e dei martiri, a partire dal IV secolo, si assiste al fenomeno inverso. Al cospetto di Roma, identificata con i valori effimeri del mondo, nasce nei fedeli il desiderio di un ritorno alle origini, verso la Terra Santa, verso le radici storico-geografiche della fede. Gesù fu crocifisso e, come tutti i condannati «patì fuori della porta della città» (Eb 13,12-14), proprio lui, che nel corso della vita aveva speso i suoi giorni per includere, riportando “dentro l’accampamento” (Lv 13,45-46) coloro che la legge aveva escluso.

Anche nella sua morte il Cristo è l’uomo delle periferie di ogni tempo e di ogni esistenza, che ai margini e ai suoi emarginati sempre si porge e sempre riconduce. Dai sobborghi della fede schietta egli era partito e ancora oggi riparte perché solo lì, lontani dal nostro “centro” possiamo trovare occhi nuovi per rivolgere lo sguardo a lui, al trafitto, come promesso dalla Scrittura e compiuto nella carne.

Volgere lo sguardo al Re trafitto

Ma che cosa significa “volgere lo sguardo al trafitto”? Secondo la profezia di Zaccaria
corrisponde a ricevere uno spirito di grazia e di consolazione (Zc 12,10). Ciò è possibile perché il Cristo ha voluto prendere sembianze di peccato e noi, rivolgendo il nostro sguardo verso quel male, potessimo vedere il nostro nulla. Infatti, mai l’uomo potrà comprendere l’abisso dell’inferno e della morte eterna, se non vedendo la propria inesorabile caduta esibita su un corpo innocente, affissa per sempre al legno, come un cartello indicatore non di una meta da raggiungere, ma piuttosto di una strada da percorrere. Volgere lo sguardo è anche guardare indietro, far memoria di ogni passo di caduta e salvezza che i nostri piedi hanno compiuto nel tempo come comunità e come singoli. È essere pellegrini di speranza, cercatori mai satolli del Re dell’universo, il Vivente che in eterno regna nei cuori che lo accolgono. Regna eternamente e gloriosamente piagato. Un Re che regna trafitto.


Rimira la croce e troverai un tesoro nascosto.
Studia, medita la sublime lezione che essa ti presenta,
e vi troverai un libro aperto che ti rivela arcane cose.
Ama la croce, e assaporerai i suoi frutti
pendenti dall’albero della vita, che è Gesù.
Tieni la croce a te presente, giorno per giorno,
come una pianta di rosa, carica dei suoi boccioli,
aspetta che questi maturino.
Raccogli queste rose e non temere le punture,
perché a suo tempo si convertiranno in tanti rubini e pietre preziose.
Gesù ha promesso: chi con Lui riposa e muore sulla croce,
sarà fatto degno di risorgere con Lui nell’ultimo giorno.

Mistica Angela Marongiu (1854-1936),
Quaderni Spirituali, in La sposa del Getsemani, a cura di M. Rosaria del Genio, Ed. San Paolo, 2007.

Maria Rita Cordeschi (Suore del Getsemani)

Per chi volesse conoscere di più la storia, il carisma e la missione delle Suore del Getsemani, può cliccare sul loro sito: www.suoredelgetsemani.it

Se vuoi vivere la Settimana Santa insieme a noi, puoi trovare altre nostre meditazioni sul nostro blog: https://www.legraindeble.it

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