Molti di noi, in questi giorni, fanno visita in quelle città dei morti, che sono i cimiteri. Città statiche, separate, immobili, per lo più lontane, definite rispetto alle città dei vivi. Città parallele in cui si entra e si esce per un bisogno ancestrale di sopravvivenza, debito, affetto, ricordo… Eppure città che hanno tanto da dire a chi si ferma a pensare.
Luoghi non-luoghi, sospesi, foucoultiane eterotopie, che aprono su altri luoghi, su altri spazi e tempi: quelli della memoria, del ricordo, del passato perduto per sempre, assieme ai cari strappati al nostro abbraccio; quelli dell’avvenire escatologico, di cui sono austero monito e insegna, promessa e consolazione. Luoghi che si spalancano sul tutto o sul nulla, a seconda di quello che si crede.
Dei (e per i) vivi
Città dei morti, ma anche città dei (e per i) vivi. Dei morti, di cui attestano quella ferita nell’inesistenza che è stata la vita di ognuno. Dei vivi, ovvero di quelli che le visitano per intrecciare corrispondenze di amorosi sensi, come canta Foscolo, o che – pur vivendo nelle città frenetiche degli uomini – sentono essere la loro più viva gioia e la loro più viva pena per sempre sepolta là con i loro cari, come accade a Stephen e Philip, davanti alla tomba dell’amata Maggie, ne Il Mulino sulla Floss di George Eliot.
Città del passato, città dell’avvenire… e intanto città di un presente cristallizzato, paralizzato, fissato per sempre nelle date dell’alfa e dell’omega – cesure tra nulla ed essere, essere e compimento – di ogni loro singolo cittadino. Una paralisi, che a tratti fa pensare a quella dei dannati danteschi, fissati nell’eternità di un solo dettaglio della loro storia. Una storia, che rimane fissata per sempre nell’essenzialità di una data, nel selezionato gioco del ricordo, storia che comunque non è parentesi, non è vacuo caso prima di una conflagrazione universale; storia, che addirittura può essere passaporto per l’eternità.
Specchio
Ancora, città specchio, anti-città delle città dei vivi. Perché le storie, la carne, le vite che le popolano sono specchio, riflesso, distorsione, monito, indirizzamento, filosofia e teologia per le storie, la carne, le vite dei vivi che le visitano. Come i purganti e i beati danteschi, che nella loro ascesa nella montagna delle sette balze o nel loro beato compimento nei cerchi paradisiaci diventano il modello ideale di cammino, lotta, vita, telos.
Come le urne dei forti che accendono ad egregie cose l’animo dei forti (Foscolo) o le tombe di un cimitero di campagna che mettono in guardia contro la vanità (cfr. Thomas Gray). O come gli abitanti di Spoon River, cantati da Edgar Lee Masters, le cui lapidi scolpite di versi, raccontano meschinità, trionfi, vanità, perdite, vittorie, compimenti quotidiani. O come Esposito Gennaro Netturbino de ‘A livella di Totò che condanna l’ossessione per le pompe del mondo del Nobile Marchese, perché Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive: nuje simmo serie… appartenimmo a morte!.
La pace
Infine, città della pace. Non solo del riposo eterno, ma anche dei conflitti e delle lotte finalmente sopite. Città dove i nemici dormono vicino, dove gli scismi si ricompongono e dove dormono gli spirti guerrieri che entro ci ruggono. Dove catarticamente tutto ha la sua fine. O il suo fine. Perché lì tutto finisce, come vogliono alcuni, o tutto inizia, come vogliono altri. O meglio, continua… e sarà per sempre. Ma la Gerusalemme celeste, la città di Dio e dell’uomo, è un’altra storia, che c’entra poco con i cimiteri. Forse ne sono un pallido riflesso. Ma no, i cimiteri sono ancora umani, troppo umani. La Gerusalemme di lassù è oltre le tombe e i cimiteri. È la Pasqua finalmente compiuta…
Francesco Pacia
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