Riprendiamo le fila del nostro discorso attorno alla poesia con il caro Don Giuseppe Bianchini, che ci aveva lasciato su una riflessione di Antonia Pozzi (clicca qui per leggere lo scorso articolo). Ci addentreremo ora in alcuni suoi versi per scoprire quale sia il ruolo della parola per l’animo umano.
Se qualcuna delle mie povere parole ti piace e tu me lo dici sia pur solo con gli occhi io mi spalanco in un riso beato ma tremo come una mamma piccola giovane che perfino arrossisce se un passante le dice che il suo bambino è bello.
La poetessa è qui come quei bambini che appena edotti sull’uso dei colori ti portano, meravigliati loro stessi innanzitutto, l’opera prima da loro realizzata; magari un simpatico scarabocchio che agli occhi del bambino assume, e di chi lo guarda, per un minimo di immedesimazione, la forma di un segreto.
Nella poesia della Pozzi ritroviamo tutto lo stesso identico slancio di tenerezza, di innocenza; come il bambino, con il disegno di fronte a chi lo guarda, la poetessa, sospesa nel respiro, attende che l’altro, un altro senza connotazione, sostando a leggere i suoi versi, li trovi belli, li faccia propri.
Lo possiamo rinvenire nell’esperienza: non si tratta di approvazione del lavoro svolto ma di coinvolgimento insieme e di partecipazione al comune destino. Il poeta comunica il suo e nostro segreto: c’è nell’anfratto più sceso del mistero umano una domanda, come una invocazione, come un “tu” continuo, come un “dove sei?”. Ed è l’assenza, o la lontananza non misurabile, di questo “tu” a generare il dolore riferito nella lettera della Pozzi.
Don Giuseppe Bianchini