L’amica geniale – Seconda parte
Vorrei scrivere del fatto che alla fine tutta la storia sembra un replicarsi di dinamiche sempre uguali, come se la vita fosse un ritornare, ad altezze e profondità diverse, sempre sugli stessi punti nevralgici, come in una spirale, in una evoluzione che non è progresso puro, lineare ma anche degrado, devoluzione, involuzione, inciampo, resa, per cui al tempo stesso si può scrivere di femminismo e lasciarsi umiliare per amore da Nino Sarratore, il personaggio più odioso, oppure essere davvero un genio ed essere avanti su tutto e tutti, persino sul proprio tempo, e non riuscire a non distruggersi e distruggere tutto, per un’incomprensibile paura, un ingestibile senso di colpa, una incontrollabile smarginatura del mondo e di sé.
Vorrei scrivere dell’amicizia di Lila e Leù, reale, carnale, per nulla idilliaca, a tratti morbosa, competitiva senza poesia, senza punti accessibili alla grazia come in Narciso e Boccadoro. Un’amicizia fatta di eros (desiderio dell’altro, non erotico!) ed eris (contesa). L’una specchio dell’altra, l’una nemica dell’altra, l’una spalla dell’altra. Amiche, nemiche, sorelle, custodi e guardiane l’una dell’altra, al punto che senza l’altra la vita sembra vuota.
Vorrei scrivere della finzione letteraria e dell’identità. Del fatto che tutta la storia è il racconto di Lenù, che vuole recuperare Lila che sembra sparita nel nulla. E mentre l’afferra nel ricordo e nel raccontarla, in realtà la perde. Perché sono sue le parole, suo il racconto, sua la versione dei fatti. E Lila non riappare. Riappare nello spazio di quelle bambole perdute da bambine e ricomparse sessant’anni dopo: una fugace apparizione, che dice che ancora una volta Lila sfugge a una definizione. Che non può essere imprigionata e che Lenù deve lasciarla alla sua inafferrabilità, che dice anche la propria inafferrabilità. Chi è Lenù senza Lila? Mentre le dice addio per sempre, infatti, si scopre più vuota, come se non esistesse senza Lila. Come se inseguire Lila negli anni fosse stato cercare sé stessa, ma non c’è Lenù senza Lila. Non c’è Lila senza Lenù.
Perché alla fine ci siamo davvero tutti chiesto chi fosse d’avvero l’amica geniale. Lenù, come aveva detto Lila, strappando all’amica la promessa di studiare e diventare la più brava di tutti, visto che lei non avrebbe potuto farlo; Lenù che se ne era andata dal rione, pur tornandoci, e aveva scritto e pubblicato? O Lila, la cattiva e brillante ragazza, il cui curriculum affermava che era stata scarpara, salumiera, adultera, innamorata di Stefano, poi di Nino, poi di Enzo, madre di Rino e Tina (la bambina perduta), lavoratrice di fabbrica, autrice de La fata blu, programmatrice, lettrice incallita, persino di libri che fanno male, studiosa autodidatta di latino, di greco, di informatica e della storia di Napoli? O forse entrambe perché l’una nell’altra trovavano la sfida, lo sprone, a essere sempre migliore?
E mentre la storia finisce con l’idea che forse Lila ha davvero smarginato, rotto il limite che si era imposta, rimane un senso di amaro. Come se essere geniali non bastasse per sfuggire al rione, al DNA, alla famiglia, alle condizioni economiche, ai limiti di genere, di classe, di cultura, ai limiti psicologici…
Che l’altro, per quanto metà di noi, ci sé sempre precluso, rimane mistero. E nell’inafferrabilità dell’altro e del mondo, si consumano le nostre piccole e grandi miserie, piccole e grandi gioie. Ma – come la storia delle bambole, in fondo insegna – ciò che si era perduto in realtà era solo smarrito e ciò che è smarrito – come insegna la parabola della pecorella – può sempre essere ritrovato. Anche se forse non come lo avremmo immaginato.
Francesco Pacia
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