Continuiamo il viaggio nel mondo della poesia. Dopo l’ultimo suo contributo su Bukowski, il nostro caro don Giuseppe Bianchini, ci interroga su quale sia il compito della poesia, interpellando tre figure poetiche quali Antonia Pozzi, Charles Bukowski, Clemente Rebora. Buona lettura! Oggi ci soffermiamo su Antonia Pozzi.
Proviamo a guardare a delle semplici domande e alle loro evidenti risposte. Sono domande che si trovano nel sottile confine tra intellettualismo e disagio personale; c’è il rischio cioè che si possa pensare immediatamente a questioni da convegni culturali. Corriamo il rischio.
Qual è il posto e il compito della poesia nel cuore del mondo della primazia della tecnica?
Questa domanda è necessaria e vitale e ne è luogo di prova anche la banalizzazione operata sui social; non appartengo infatti alla categoria dei radicali dell’avversione (di facciata) a questi strumenti che magari citano a sproposito autori e versi, oppure elevano a versi sublimi degli agglomerati di parole più consoni al pur nobile incarto dei cioccolatini. Io per me dico che sono manifestazioni, fenomeni del profondo “porto sepolto” che Ungaretti ci ha reso familiare in questo verso, il luogo antico dell’abisso del cuore umano. Il porto sepolto “in se” dove ognuno vorrebbe attingere senso e significato. In tempi nei quali, ripeto, pur nella barbara banalizzazione, l’urgenza di significato si è fatta roboante.
La poesia ha questo compito sublime
L’arte è il tentativo dell’uomo di figurare la realtà. Perché? “Perché l’uomo è quel livello della natura in cui la natura incomincia a conoscere di che cosa è fatta: autocoscienza”. Sicché ecco l’estremo ed inesausto moto della poesia che si protende alla comunicazione del “se” individuale (io) al “se” relazionale (io/tu/noi) come luogo, conseguenza, causa, status della scoperta
più grande dell’universo: l’uomo è persona. Non possiamo addentrarci troppo su questioni di natura filosofica e religiosa e ci conserviamo buono questo assioma; la buona volontà del lettore, come sempre, ci metterà il resto.
Non tutti gli uomini lo sanno dire, questo groviglio intrecciato, ma tutti senz’altro lo sono. E’ il bisogno per eccellenza.
Per saperlo anche, ci vogliono gli ardimentosi poeti che possono dire con le parole l’indicibile, per quella abituale frequentazione con il proprio, malcelato segreto. A più voci e sensibilità anche lontane che adesso ascolteremo. Attingiamo dalle parole di Antonia Pozzi poetessa lombarda vissuta ai primi del novecento.
La poesia ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita. Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel cuore.
Antonia Pozzi, Lettera a Tullio Gadenz
La donna che ci ha donato questo brano, sulla sua visione purificatrice della arte poetica, morirà suicida a soli 26 anni, come a contraddirne, nell’esperienza, il pensiero. Purtroppo questo gesto ferale, oltre che privarla della vita, ha tolto a noi posteri una delle “voci liriche” più imponenti nel panorama italiano.
Giuseppe Bianchini