Ricorrendo la settimana per l’unità dei cristiani, non si può non prescindere da quella parte dell’Ecumenismo spirituale – come ricorda il Decreto Unitatis Redintegratio nn.7-8 – che sottolinea il valore della preghiera come strumento per l’unità. Due tipologie, in particolare il Concilio raccomanda; “preghiera per” è semplice: pregare per l’unità. Qui si esplicita il modello supremo insuperabile di Gv 17,21: perché siano una cosa sola. È il cuore della preghiera cristiana, entrare nel cuore di quella di Cristo, fare nostra la preghiera del Fondatore nell’ultima Cena. L’unità era quanto stesse più a cuore a Cristo prima di donarsi per il mondo. La preghiera così intesa dovrebbe essere l’habitus del cristiano. Il secondo paradigma offerto dal Concilio è “pregare con”: ci dice che in alcune circostanze è lecito, anzi desiderabile che i cattolici si associno nella preghiera con i fratelli separati. Due salti di qualità: livello della liceità e della desiderabilità.
Desiderabilità e Preghiera
Per tutto il 900 era vietato il pregare con, ma non solo, adesso si afferma che è anche desiderabile. Tuttavia, questa desiderabilità è riferita a quelle circostanze che sono appunto indette appositamente per l’unità. Si può ed è bello farlo in talune speciali circostanze. A questo proposito, il Concilio sottolinea che le parole hanno un valore: non è normale pregare insieme, se non in talune circostanze. Non si parla della preghiera ordinaria. A questo proposito si ravvisa un problema, nell’ultimo paragrafo del Decreto, dove si evoca una questione di carattere teologico, quindi canonico, quindi pastorale, ovvero la communicatio in sacris. “cose sacre”, ovvero dei Sacramenti e più specificamente Eucarestia, Penitenza e Unzione degli infermi.
il Battesimo è riconosciuto valido a debita amministrazione, il Matrimonio è disciplinato da una normativa specifica, l’Ordine evidentemente non crea alcun caso, in quanto se un soggetto non appartiene a quella determinata confessione, neppure domanderà di esserne ministro. Si apre qui una questione importante e controversa, canonistica, ma anche teologica e pastorale.
- Alcune precisazioni previe
È chiaro che, prima della riforma conciliare e del rinnovamento ecclesiale operato dal Vaticano II, non era ammissibile alcuna forma di communicatio in sacris nella Chiesa cattolica. Il can. 731 §2 del Codice di Diritto Canonico del 1917, escludeva tutti i non cattolici dalla recezione dei sacramenti nella Chiesa cattolica [1]. Solo in pochissimi casi eccezionali, ossia per una conversione o in pericolo di morte – con un forte segno di volontà di conversione –, il ministro doveva poter ragionevolmente presupporre che i fedeli volevano riconciliarsi con la Chiesa cattolica e professare la vera fede. Tuttavia, era necessario evitare lo scandalo [2].
Fase post conciliare
Dopo un lungo iter, nel Decreto conciliare Orientalium ecclesiarum, sulle Chiese orientali cattoliche al n. 26, si chiarisce proprio il significato della communicatio in sacris con valore positivo. I nn. 24-29 di tale Decreto riguardano i rapporti con i fratelli delle Chiese separate. Fanno da introduzione i nn. 24-25 a proposito della collaborazione per la promozione dell’unità tra i cristiani da parte di tutte le Chiese.
Proprio a tal proposito bisogna immediatamente chiarire che, la communicatio viene trattata in due modi differenti, per così dire. Un primo riguarda le Chiese Orientali, il secondo le cosiddette comunità ecclesiali. Ed ecco che si fa strada la necessità di chiarire quale differenza intercorra tra queste due realtà. In maniera sintetica possiamo affermare che la differenza fondamentale riguardi la successione apostolica. Mentre le Chiese hanno la successione apostolica, le comunità ecclesiali ne sono prive e per tale ragione, automaticamente, sono prive di una valida ordinazione presbiterale e quindi di una valida Eucarestia. Ciò detto, vale la pena ricordare che cosa la Chiesa cattolica intenda con l’espressione latina communicatio in sacris, in maniera prodromica rispetto a quanto tratteremo più avanti.
Strictu sensu, è l’espressione con cui la Chiesa di Roma ha cercato di definire e disciplinare ogni forma di partecipazione di un cattolico alle celebrazioni liturgiche e ai sacramenti di un culto non cattolico. potremmo dire, per usare un’espressione già nota, che si tratta delle condivisione dell’Itinerario verso Dio, così come precedentemente spiegato (si può approfondire leggendo https://www.legraindeble.it/la-liturgia-itinerario-verso-dio-2/).
L’Eucarestia fine e non mezzo
L’ultima considerazione previa che pare giovare alla nostra trattazione è relativa al fatto che il Concilio, in Unitatis Redintegratio, afferma che la communicatio in sacris non è mezzo da usarsi indiscriminatamente per il ristabilimento dell’unità dei cristiani. Chiarissimo, quindi, nel dire che l’Eucarestia non è mezzo, ma fine del cammino di unità della Chiesa. Due principi – aperti nella liturgia dei Sacramenti – ovvero: i Sacramenti – in particolare l’Eucarestia – manifestano l’unità della Chiesa; i Sacramenti sono segni efficaci della grazia.
La simmetria del Decreto
La comunicazione è da usarsi frequentemente a motivo della sua manifestazione di unità e di partecipazione alla grazia, cui segno tangibile sono i Sacramenti? A tal proposito il Decreto utilizza due espressioni apparentemente contrastanti, ma realmente simmetriche: “per lo più” e “talvolta”. Risposta, dunque dapprima negativa – per lo più – dunque sono più i casi in cui è vietato perché se è manifestazione dell’unità e non siamo uniti non si può manifestare qualcosa che non c’è. Il secondo principio, la necessità di partecipare la grazia, “talvolta” la raccomanda. Ed ecco la simmetria: per lo più/talvolta, e poi il divieto e la raccomandazione. Si comprende che si tratta di questione di fede molto delicata.
- Della communicatio delle Chiese Orientali
Analizzando la normativa canonica [3] – che naturalmente ha alle spalle il Magistero conciliare – ben si nota come l’intercomunione sia possibile, a certe condizioni, senza troppi problemi, tra quelle Chiese che hanno mantenuto la sostanza dell’Eucaristia, il Sacramento dell’ordine e la successione apostolica.
Il can. 844 del C.J.C., con i suoi cinque paragrafi è stato pensato e rimaneggiato a lungo dalle commissioni preparatorie: si è voluto raccogliere in un solo canone l’intera materia sacramentale in rapporto agli sviluppi ecumenici e proprio alla communicatio in sacris, ossia all’ammissione ai sacramenti della Chiesa cattolica da parte di cristiani appartenenti ad altre confessioni cristiane acattoliche, che non posseggono piena comunione con essa, e viceversa.
Paragrafo primo e secondo
Il primo paragrafo, in realtà, stabilisce il soggetto ordinario capace di distribuire e di ricevere i sacramenti nella Chiesa cattolica, rispondendo a un principio canonico fondamentale, ovvero che i ministri che amministrano e i fedeli che ricevono i Sacramenti debbono essere in linea di massima cattolici. Questo principio trova la sua massima espressione nell’Eucaristia a motivo del nesso stretto tra Chiesa cattolica e Sacramento eucaristico; il principio teologico che sostiene il principio canonistico è il seguente: la Chiesa fa l’Eucaristia, l’Eucaristia fa la Chiesa. Pertanto, chi riceve questo Sacramento manifesta e attua la comunione ecclesiale, ossia l’inserzione del membrum Ecclesiae, nella Chiesa attraverso il suo principio è che l’Eucaristia, la quale è consacrata dai ministri sacri [4].
Il paragrafo secondo considera le eccezioni previste nel primo paragrafo. La prima afferma che ai cattolici è lecito ricorrere a ministri acattolici che nella loro confessione ammettano i sacramenti della Chiesa cattolica, per ricevere il Sacramento della penitenza, dell’Eucaristia e dell’Unzione degli infermi a queste condizioni, ovvero: che non si tratti di un puro desiderio o di sentimentalismo; che l’ammissione dei cattolici ai sacramenti di una confessione acattolica non produca pericolo di errori o di indifferentismo nei cattolici stessi; che sia fisicamente o moralmente impossibile ricorrere a ministri cattolici.
Paragrafo terzo, quarto e quinto
Il §3 tratta del caso in cui acattolici e, in special modo, i cristiani delle Chiese orientali chiedano spontaneamente e con retta disposizione d’animo i Sacramenti della Penitenza, dell’Eucaristia e dell’Unzione degli infermi. Una menzione singolare merita il §4 del can. 844, il quale pone attenzione a un cristiano acattolico che appartiene a una confessione che non è in piena comunione con la Chiesa cattolica e che – con ogni probabilità – non possiede tutti i sette Sacramenti e chiede, però, i Sacramenti cattolici in caso di pericolo di morte o di altra urgente necessità. Si tratta di un credente che non ha possibilità di rivolgersi al ministro della sua comunità e che spontaneamente chiede di ricevere Confessione, Unzione degli infermi ed Eucaristia.
Le condizioni per l’amministrazione dei Sacramenti
L’amministrazione dei Sacramenti è lecita purché si verifichino queste condizioni: che il credente acattolico moribondo abbia fede cattolica nei sacramenti che chiede; che sia ben disposto; che l’amministrazione dei Sacramenti abbia ricevuto un parere del Vescovo locale o della Conferenza quando non si tratta del pericolo di morte ma solamente di una necessità urgente, come, possiamo ipotizzare, in caso di persecuzione o di carcerazione [5].
L’ultimo paragrafo, il quinto, dispone che il Vescovo locale o le Conferenze episcopali emanino norme che regolano i casi suddetti. Tuttavia, tali norme devono essere prese dopo consultazione con i capi religiosi delle varie confessioni acattoliche locali e competenti in generale.
Il Codice delle Chiese Orientali
Il can. 670 C.C.E.O., afferma invece che possono i fedeli cattolici assistere al culto divino di altri cristiani, con la specifica che per altri cristiani o cristiani acattolici si intendono gli orientali ortodossi e i protestanti. Con il termine ortodosso nel Codice delle Chiese orientali si indicano, generalmente, le Chiese orientali non cattoliche che accettano le decisioni del Concilio di Efeso e di Calcedonia. Tuttavia, lo stesso Direttorio ecumenico, ricorda che questo termine, per ragioni storiche, è stato riferito anche alle Chiese che non accettarono alcune formule dogmatiche dell’uno o dell’altro dei due Concili sopra citati. Si tratta di quelle Chiese denominante anche “antiche Chiese orientali” o “precalcedonensi”. È chiaro che il termine altre Chiese o Comunità ecclesiali si riferisce, in genere, a quelle sorte in Occidente in seguito alla Riforma [6].
Conclusioni
Alla luce di quanto fin ora detto, relativamente alle Chiese orientali, pare abbastanza pacifico che, la communicatio è possibile sempre per gli acattolici nell’accesso ai Sacramenti della Chiesa cattolica, mentre è più stringente per i cattolici che vogliono accedere ai Sacramente – in regime di validità – cristiani acattolici. Certamente, comunque Oggi, nel dialogo ecumenico, non si parla più di communicatio in sacris per esprimere la partecipazione alla vita liturgica e alle attività spirituali delle altre Chiese o comunità ecclesiali. Communicatio in sacris assume sempre più un significato normativo, canonico, e riguarda i casi in cui è possibile ricevere a certe condizioni alcuni Sacramenti.
A volte tale espressione è riletta soprattutto per il problema o la proposta dell’intercomunione o dell’ospitalità eucaristica (per un approfondimento sulla Divina Liturgia ortodossa si veda: https://www.legraindeble.it/la-divina-liturgia/ e https://www.legraindeble.it/la-divina-liturgia-e-la-liturgia-cattolica-azioni-per-eccellenza-tra-analogie-e-differenze/) .
Quanto appena detto è valevole anche per le comunità ecclesiali, volutamente non ancora menzionate perché saranno oggetto di una trattazione a parte, che seguirà.
Prof. Cristian Lanni
Note
[1] Il Codex così affermava: «Vetitum est Sacramenta Ecclesiae ministrare haereticis aut schismaticis, etiam bona fide errantibus eaque petentibus, nisi prius, erroribus reiectis, Ecclesiae reconciliati fuerint».
[2] Per un approfondimento, si veda: M. Graulich, Il sacramento dell’eucaristia e la communicatio in sacris tra la Chiesa cattolica e le chiese orientali non cattoliche, in https://www.ccee.eu/wp-content/uploads/sites/2/2019/09/Intervento-Mons.-Graulich.pdf [ultimo accesso 21-1-2024].
[3] ci riferiamo al can. 844 del C.J.C. e al can. 670-671 del C.C.E.O.
[4] cfr. P.V. Pinto (cur.), Corpus iuris canonici. 1. Commento al Codice di Diritto canonico, Città del Vaticano 2001, 528-529.
[5] A mo’ di completezza, occorre citare i canoni 933, 908, 1183 §3 e 1365 C.J.C. ove si fa riferimento alla communicatio in sacris. Il can. 933 considera la possibilità della celebrazione eucaristica in tempio non-cattolico: «Per giusta causa e su licenza espressa dell’Ordinario del luogo, è lecito al sacerdote celebrare l’eucaristia in un tempio di qualche Chiesa o comunità ecclesiale che non abbiano la piena comunione con la Chiesa cattolica, evitando lo scandalo».
[6] Per il commento agli altri canoni, cfr. P.V. Pinto (cur.), Corpus iuris canonici. 2. Commento al Codice dei canoni delle Chiese orientali, Città del Vaticano 2001, 554-557.
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