Un’altra poesia dei doni di J. L. Borges
Un padre gesuita, a me molto caro, amava ripetere spesso una frase di Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica: La riconoscenza è il sentimento della vigilia.
La riconoscenza come sentimento del giorno prima. A prima vista sembra stridente, illogico perché più che della vigilia o dell’aurora, essa sembra essere il sentimento del tramonto, delle cose e dei giorni che si chiudono, di ciò che c’è stato – forse tanto atteso e richiesto – non certo di ciò che non si sa nemmeno se ci sarà. Forse, come alcuni più realisti o cinici hanno sostenuto, con quella frase si voleva – non senza una punta di amarezza – dire che la gratitudine e la riconoscenza sono autentici nell’attesa del favore o del dono e possono diventare, una volta che la vigilia dell’aspettativa e dell’attesa è passata e ciò che si è voluto è arrivato, un fardello e un’obbligazione, un macigno, una catena che vincola… Mentre esse sono più pure e sorgive nel momento dell’attesa.
L’attesa
In realtà, proprio questo mi pare cruciale: che la riconoscenza e la gratitudine siano pensate come imparentate con l’attesa, con il desiderio che forma, plasma, deforma, con quella dilatazione che proietta in avanti.
Al tempo stesso – e qui sono io che divago – essendo sentimento del giorno prima ha a che fare anche con il prima, con ciò che sta dietro. Riporta indietro. Ha carattere anamnetico, di memoriale. Per questo può essere il sentimento della vigilia, di chi ha già sperimentato il dono e il dono è sempre fondativo e proiettivo. Apre al domani, perché è un compimento che è sempre promessa di un di più a venire.
La vigilia, al tempo stesso, è sempre anche tramonto, ovvero seme di un nuovo giorno, promessa di un di più, alla luce del di più già sperimentato. E allora, nella vigilia della riconoscenza, nel memoriale del dono che sempre ci precede e sempre ci è davanti, in quell’eucaristia esistenziale cui è chiamata tutta la nostra vita, condivido questi versi di Borges, in questi giorni che vedono per molti tramontare un percorso scolastico o un anno di lavoro o formativo o pastorale, per dare parole alla riconoscenza e innalzare il canto di ringraziamento.
Un’altra poesia dei doni
Si tratta di una poesia intitolata Un’altra poesia dei doni. È un’altra perché Walt Whitman e Francesco d’Assisi, rispettivamente con Canto di me stesso e il Cantico delle creature, già scrissero questa poesia. Ed è dei doni perché tutto è dono, tutto è donato. Riconoscerlo è vigilia del di più.
Ma è anche una poesia inesauribile e si confonde con la somma delle creature / e non arriverà mai all’ultimo verso / e cambia secondo gli uomini: anche tu che leggi puoi scriverla e continuarla (lo ha fatto di recente Mariangela Gualtieri) intrecciando il tuo canto esistenziale a quello di tutti, intrecciando gli eventi con la storia di tutti, con la poesia, la musica, le stelle, in quel grazie cosmico che va a Colui che per alcuni è solo divino / labirinto degli effetti e delle cause, per altri il Dio amore che tesse la storia e dona, dona, dona…
Voglio rendere grazie al divino labirinto degli effetti e delle cause per la diversità delle creature che compongono questo singolare universo, per la ragione, che non cesserà di sognare qualche tratto del labirinto, per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse, per l’amore, che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità, per il saldo diamante e l’acqua sciolta, per l’algebra, palazzo dai precisi cristalli, per le mistiche monete di Angelus Silesius, per Schopenhauer, che forse decifrò l’universo, per lo splendore del fuoco che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico, per il mogano, il cedro e il sandalo, per il pane e il sale, per il mistero della rosa che prodiga colore e non lo vede, per certe vigilie e certe giornate del 1955, per i duri mandriani che nella pianura aizzano le bestie e l’alba, per il mattino a Montevideo, per l’arte dell’amicizia, per l’ultima giornata di Socrate, per le parole che in un crepuscolo furono dette da una croce all’altra, per quel sogno dell’Islam che abbracciò mille e una notte, per quell’altro sogno dell’inferno, della torre del fuoco che purifica, e le gloriose sfere, per Swedenborg, che conversava con gli angeli per le strade di Londra, per i fiumi segreti e immemorabili che convergono in me, per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria, per la spada e l’arpa dei sassoni, per il mare, che è un deserto splendente e una cifra di cose che noi non conosciamo, per la musica verbale d’Inghilterra, per la musica verbale di Germania, per l’oro, che rifulge nei versi, per l’epico inverno, per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos per Verlaine, innocente come gli uccelli, per il prisma di cristallo e il peso del bronzo, per le strisce della tigre, per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan per il mattino in Texas, per quel sivigliano che scrisse l’Epistola Morale e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo, per Seneca e Lucano, di Cordova, che prima della nascita dello spagnolo scrissero tutta la letteratura spagnola, per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi, per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce, per l’odore medicinale degli eucalipti, per il linguaggio, che può simulare la sapienza, per l’oblio, che annulla o modifica il passato, per l’abitudine, che ci ripete e ci conferma come uno specchio, per il mattino, che ci prepara l’illusione di un principio per la notte, la sua tenebra e la sua astronomia, per il coraggio e la felicità degli altri, per la patria, sentita nei gelsomini o in una vecchia spada, per Whitman e Francesco d’Assisi, che già scrissero questa poesia, per il fatto che la poesia è inesauribile e si confonde con la somma delle creature e non arriverà mai all’ultimo verso e cambia secondo gli uomini, per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli perché moriva così lentamente, per i minuti che precedono il sonno, per il sonno e la morte, quei due occulti tesori, per gli intimi doni che non conto, per la musica, misteriosa forma del tempo.J.L. Borges, Altra poesia dei doni (1964)
Francesco Pacia
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