Tra Vetus e Novus Ordo. È possibile la pace liturgica? È un approfondimento del prof. Lanni Cristian su questo tema tanto attuale ma sul quale c’è molta confusione. Altri approfondimenti sulla liturgia sono nella nostra rubrica: ABC Liturgico.
«Sana traditio e legitima progressio»
Dopo aver scorso i principali snodi della riforma del XX secolo ed evidenziato le vexatae quaestiones della liturgia, nel precedente articolo, intendiamo arrivare ad un punto cruciale: la domanda sulla necessità di una riforma della riforma rispetto a quanto stabilito per la Chiesa dal Concilio Ecumenico Vaticano II. La risposta a questa domanda non può esimersi da una breve analisi, anche comparativa, dei due motu proprio che maggiormente hanno destato clamore: Summorum Pontificum e Traditionis Custodes.
Summorum PontificumeTraditionis Custodes: due motu proprio a confronto
Riteniamo opportuno, per comprendere al meglio la questione sorta tra i due documenti pontifici, uscire dalla logica della troppo semplice contrapposizione di intenti tra due Pontefici con una visione evidentemente diversa della questioni discusse. La tematica è più profonda e sicuramente più ampia di una banale contrapposizione, appunto.
Quello che potremmo chiamare “l’Esperimento Benedetto XVI”, ovvero la promulgazione del motu proprio Summorum Ponrificum, aveva infatti lo scopo di estendere il diritto di celebrare la messa nel rito tridentino, il cui messale fu già riformato da Giovanni XXIII, permettendo così un ampliamento della concessione già stabilita da Giovanni Paolo II con l’indulto Quattuor abhinc annos, nel 1982 e il motu proprio Ecclesia Dei Aedificata del 1988. Tuttavia, analizzando il testo del motu proprio del Pontefice Benedetto XVI, si riscontra (forse) un impianto non proprio saldo, ovvero la considerazione di associare due forme rituali ad un’unica forma del credere, dunque una lex credendi a due leges orandi. Ma ancor più illusorio fu il mettere in discussione una crisi evidente senza discutere le cause della crisi medesima. Procediamo per gradi.
Più che due forme del medesimo rito, ovvero una lex orandi ordinaria e una seconda straordinaria, le quali condurrebbero in egual maniera alla medesima lex credendi, piuttosto si verifica una doppia posizione nei confronti della riforma liturgica conciliare: ovvero una argomentazione conforme ed una argomentazione evidentemente negazionista, più o meno radicale. Alcuni ritengono che tale argomentazione sia nata nel 2000, tra il Cardinale Lustiger e l’allora Cardinale Ratzinger, in vero le origini della diatriba risalgono al 1951 con la riforma della Veglia Pasquale operata da Pio XII [8]. Già allora, il Cardinale Siri inviava a Roma l’osservazione per la quale la riforma dovesse essere applicata su discrezione di quanti desiderassero aderire, permettendo a quanti non lo desiderassero di rimanere fermi nella celebrazione del “vetus ordo”. Ciò che dobbiamo imparare è che il meccanismo riflessivo che pretenderebbe che siano vigenti contemporaneamente due riti, sia quello nuovo sia quello vecchio, è nato per contrastare in modo radicale la riforma liturgica. E tale rimane anche in Summorum Pontificum, nonostante le buone intenzioni dichiarate.
Ciò detto, la forma vigente del rito romano assume, in sé, la discontinuità e la continuità, come è ovvio ed accade in tutti i fatti storici, non vi è una successione di “male” e di “bene”. Potremmo quasi affermare che nel vetus ordo erano già presenti elementi fondamentali del novus ordo, ed in quest’ultimo sono portati alla luce dimensioni del precedente sviluppate in modo diverso. Ma non esiste “concorrenza”, perché lo sviluppo della tradizione non permette di tenere, contemporaneamente, la forma da modificare insieme alla forma che la modifica. Solo per breve periodo, e senza continuità, è possibile accettare una situazione di mezzo, una sorta di interregno, ma questo è una conseguenza di tutti i processi di riforma generale. Il “rito straordinario” può di fatto considerarsi una fictio iuris che però, se male interpretata crea ancora più confusione in una diatriba che non giova alla Chiesa. Occorre necessariamente una reductio ad unum, la fissazione di un unico “campo di lavoro”, ossia l’unico rito romano vigente, nel quale poter elaborare con cura tutta la tradizione celebrativa.
Il punto focale dunque è la necessità di una voce univoca che richiami ad un’unica lex orandi per un’unica lex credendi.
Questa necessità aiuta anche ad evitare, come indica giustamente Traditiones Custodes, che il messale venga utilizzato come “bandiera” di identificazione di una fazione ecclesiale detentrice della verità assoluta del pregare e conseguentemente del credere. Quella che era una possibilità di arricchimento è stata tramutata in un allargamento di una frattura già notevole all’interno della Chiesa. Il tentativo di Benedetto XVI fu quello di un santo equilibrio che mirava all’effetto taumaturgico del canone secolare e di una teologia correttiva dell’universo di abusi e piccoli e grandi di dominante e vergognosa superficialità di lettura del Concilio vaticano II. Due le principali osservazioni che emergono dalla lettura comparata dei due motu proprio. La prima. Delle diffuse, crescenti e ragionate resistenze, e del loro progressivo irrigidimento, hanno grande responsabilità la retorica e la pratica liturgica che si proclama “conciliare”. La fragilità teologica e l’obiettivo primario, ovvero la “partecipazione” cui tutto è stato sacrificato, della riforma liturgica, distante anni luce dalla Sacrosanctum Concilium, sono testardamente ricondotti alla volontà dei Padri conciliari. Questo avviene del tutto analogamente, da decenni e oggi ancora più ciecamente, anche per le diverse e caotiche dinamiche teologiche, pastorali, missionarie, che pretendono tutte e sempre di attuare il Concilio. Come potrebbe il Concilio non apparire di conseguenza, ai credenti più vigili, la fonte di ogni male? In questo quadro opera anche una certa disonestà: si sa bene che il Concilio, i suoi testi e la sua intentio non giustifica quasi niente delle prassi attuali, se non come evento, ovvero come una pretesa cesura interpretabile a piacere. Si sa ma lo si tace. La seconda. Il sentirsi “vera Chiesa” o Chiesa catacombale o monastica è certo un errore, quantomeno un’ingenuità che circola nella diffusa resistenza ecclesiale. Ma quale spettacolo di mancata o incerta o tradita predicazione del mistero cristiano danno nel mondo molte parrocchie, non poca gerarchia, insomma molta Chiesa in capite et in membris? Lo stesso Pontefice Francesco definisce «vergognose» molte liturgie odierne. Con quale autorità, allora, si presenterà un quidam – come prescritto nel motu proprio – a controllare pratiche e convinzioni di una comunità, che chiamerei “Summorum pontificum”? Non gli basterà il latino, per che farne, poi? Per verificare l’ortodossia del “Nobis quoque peccatoribus”?
Vorremmo, in fine, sottolineare in questo tentativo di sottolineare le criticità dell’uno e dell’altro motu proprio, senza avere la pretesa di pontificare, quanto piuttosto di analizzare criticamente, evidenziare un termine di Traditiones Cutodes. In riferimento ai “seguaci” del vetus ordo, ovvero il termine «gruppo». In vero tale termine era già presente nel precedente Summorum Pontificum, ma ingenera nell’uno e nell’altro caso un intendimento sintomatico come di un qualcosa “da monitorare” lasciando supporre che si tratti di un fatto relativo a minoranze organizzate e tendenzialmente scismatiche, ipotesi spesso lontana dalla realtà. Rischiamo di confondere questi fedeli con gruppi “minus habentes” di riluttanti anticonciliaristi o con gli altrettanto tali “assassini” del Concilio che giustificano ogni abuso con presunte intenzioni dei Padri conciliari.
Riforma della Riforma o attuazione della Riforma?
La domanda che in molti si pongono è se occorra, ad oggi una riforma della riforma liturgica. La risposta che riteniamo corretta è no. Non occorre una seconda riforma, una sorta di correzione della prima riforma liturgica, quanto piuttosto siamo fermamente convinti che occorra piuttosto una vera attuazione della riforma liturgica. Innegabilmente la lettura attenta ed analitica della Sacrosanctum Concilium permette di capire con facilità che l’intentio dei Padri conciliari non è stata attesa dalla reale messa in campo della riforma stessa.
In primo luogo, la traduzione dell’espressione «actuosa partecipatio» [9] con “partecipazione attiva” è errata. Sarebbe molto più corretto tradurre l’espressione con “partecipazione effettiva”, laddove il termine latino actuosa, indica primariamente la partecipazione intima e contemplativa della mente e del cuore ai sacri riti che il termine “attiva” non rende; questa, piuttosto, sta a indicare la preoccupazione attivistica per le cose esteriori da fare quanto più possibile [10]. L’esclusione del significato “effettiva” in favore del solo “attiva” è siile all’errore che Marta fa nei confronti di sua sorella Maria, escludendone l’utilità della forma contemplativa. Della concezione riduttiva della participatio actuosa, hanno risentito le acclamazioni, le risposte, i salmi, le antifone, gli inni, le azioni, i gesti e atteggiamenti del corpo, persino il riverente silenzio [11]. Inoltre, questo fraintendimento, portato allo stremo tende ad una spettacolarizzazione della liturgia stessa che si trasforma in un teatro che offre un’appagante platea per il celebrante. Da ciò si comprendono due cose: in primis, la disattenzione alla reale intenzione dei Padri conciliari, ed in secondo luogo la necessità di un ritorno al diritto liturgico ed alla sua osservanza. Checché ne dicano taluni liturgisti, l’osservanza del diritto liturgico non riduce la liturgia a mero rubricismo giacché l’azione liturgica stessa è in se ipsa espressione ordinata e ordinante: le norme liturgiche sono essenza della liturgia stessa. Nell’Antico Testamento, infatti, il culto reca in se la propria norma; può essere cioè regolato solo in base alla norma della Rivelazione, a partire da Dio che, insieme al decalogo, attraverso Mosè, stabilisce l’alleanza [12], che si concretizza in una forma minuziosamente regolamentata di culto. Israele impara ad adorare Dio nel modo da Lui stesso voluto, secondo le Sue norme. Nell’ordinamento dell’alleanza stabilita al Monte santo gli aspetti del culto e della norma sono indissolubilmente intrecciati tra loro: per questo un ordinamento delle cose umane che non riconosca Dio sminuisce l’uomo. In ultima analisi, anche culto e diritto non possono essere completamente separati tra di loro. Ogni volta che Israele abbandona il giusto culto di Dio per rivolgersi agli idoli, viene meno anche la libertà. La liturgia, ogni liturgia deve basarsi su delle norme che richiamano alla Lex fundamentalis: se Dio non si mostra, l’uomo afferma il vuoto. L’epifania di Dio è fondamentale per ogni azione liturgica, solo in questo caso si celebra in pienezza e profondità. Nel caso contrario l’uomo, sulla base di quell’intuizione di Dio che gli è iscritta nell’intimo, può certamente costruire altari “a un dio ignoto”(cfr At 17,23); può protendersi col pensiero verso di Lui, cercare a tentoni di avvicinarsi a lui. Ma la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Tuttavia ciò prevede assolutamente una istituzione, esclude categoricamente ogni costruzione fantasiosa dell’uomo medesimo, ogni creazione propria che rimarrebbe un “grido nel buio” o come spesso accade, l’autoaffermazione di se stessi.
Non esiste alcun contenuto che non abbia anche una forma che lo richiami; dunque tocca domandarsi se ri-forma significhi una modifica radicale o, piuttosto, un miglioramento della forma medesima sulla base di una continuità Tradizionale che meglio esprima nel tempo il contenuto che reca in se stessa. i fatti dimostrano che, pur intendendo il Concilio un miglioramento che custodisse la Tradizione, in vero l’attuazione pratica ha significato uno stravolgimento della forma liturgica che, de facto, troppo spesso ha stravolto anche il contenuto. Ecco dunque che il motu proprio Traditiones Custodes vuole innestarsi proprio nella ratio conciliare, ovvero significare la voce autorevole del Legislatore che riporta al giusto contenuto la giusta forma. Non erroneamente, infatti il Pontefice richiama al riconoscimento della riforma conciliare [13], nonché all’espressione dell’unica lex credendi da un’unica lex orandi [14].
Dunque, le difficoltà ed anche taluni abusi rilevati, non possono oscurare la bontà e la validità del rinnovamento liturgico, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate. Si tratta in concreto di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all’interno dell’unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture, mutamenti o imbarbarimenti della liturgia stessa. La rottura, purtroppo, è avvenuta, perché non è stato assolto il compito di salvaguardare i diritti di Dio sulla liturgia, ovvero di moderarla, da parte dei soggetti ai quali il concilio l’aveva affidato: la Sede Apostolica e, a norma di diritto, il vescovo, ed entro certi limiti, le conferenze episcopali, come recita il testo della Costituzione liturgica[15]. In ultima analisi comprendiamo cosa significhi “moderare”. Con tale termine il Concilio voleva intendere salvaguardare la legittima diversità delle tradizioni in campo liturgico, spirituale, canonico e teologico. Si pensi alle liturgie occidentali come la romana e l’ambrosiana, e alle numerose liturgie orientali custodite all’interno dell’unica Chiesa cattolica. Il termine può essere tradotto anche come “regolare”, il che presume che l’operazione avvenga “sotto la direzione” di un’autorità suprema. Ciò è facilmente evincibile confrontando il termine anche in altri documenti del Vaticano II. Ci riferiamo in maniera specifica e particolare al Decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, il quale al n. 14 intende il medesimo termine con “sotto la presidenza” [16]. La sacralità della liturgia, dunque, spinge la Sacrosanctum Concilium a tirare le conseguenze:«Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica» [17].
Per concludere
Non si ritiene necessaria una riforma della riforma, perché a conti fatti, la riforma conciliare non è stata applicata, almeno non nella intentio che era quella originaria dei Padri del Concilio. Tre i punti, a nostro parere, fondamentali per una possibile “pace liturgica”.
Una corretta lettura della Costituzione Sacrosanctum Concilium che riporti all’origine della ratio della riforma stessa, ben intesa nel considerarsi “custodi della Tradizione”, ovvero mantenendo ferma la centralità dell’adorazione di Dio nella liturgia, mutare e dunque ri-formare per adeguare ai tempi la parte suscettibile della lex orandi, ovvero le norme. Tutto è magistralmente significato dall’espressione «Sana traditio e legitima progressio» di Sacrosanctum Concilium, n. 30.
Il richiamo forte all’osservanza del diritto liturgico, essendo la liturgia in se ipsa espressione della norma della Rivelazione di Dio. Affermare che la liturgia è sciolta dal diritto, così come in precedenza dimostrato, significa negare che essa sia espressione dell’azione di Dio e renderla, dunque una mera azione umana.
L’importanza dell’azione liturgica chiama a se, necessariamente, una moderazione che non lasci spazio all’inventiva e alla libera iniziativa di alcuno, neppure del ministro stesso. Infatti, quest’ultimo non agisce per se ma in persona Christi; in forza di ciò solo la Sede Apostolica e i Vescovi, in comunione con il Vicario di Cristo, possono avere la potestà di pronunciarsi sulla liturgia. Questo permette di salvaguardare i diritti di Dio sull’espressione visibile della sua stessa azione: la liturgia.
Prof. Cristian Lanni
[8] Proposta dal Pontefice ad experimentum per tutta la Chiesa.
[9] Sacrosanctum Concilium, n. 14.
[10] cfr. J. Ratzinger,Opera omnia,Teologia della liturgia,11,IV. La forma liturgica, 162-167.
[11] cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 30.
[12] cfr. Es. 24.
[13] cfr. Art. 3 §1.
[14] cfr. Art. 1.
[15] cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 22 §§ 1-2.
[16] Nella traduzione francese fatta dai medesimi estensori del Decreto «intervenant d’un commun accord».
[17] n. 22 § 3.