Su un distico elegiaco attribuito a Platone
La volta celeste da contemplare
Una delle cose più care che porto con me dal liceo sono questi due versi dell’Antologia Palatina (VII, 669) attribuiti a Platone. Il prof. di filosofia ce li recitava spesso… e io rimanevo incantato a immaginare la scena: lui/lei che guarda lui/lei che a sua volta guarda le stelle e il cielo e si meraviglia che lo faccia, perché ai suoi occhi è lui/lei la stella (forse anche perché si chiama così o lo/la chiama così) da contemplare.
Il cielo amato
E allora nasce il desiderio di essere la volta celeste che lui/lei guarda per poter ricambiare il suo sguardo attraverso le miriadi di occhi di stelle, per guardare a lui/lei da infinite angolature, quasi facendo nascere il sospetto che c’è uno spettacolo più bello del cielo stellato, che persino le stelle vogliono vedere, lui/lei, la persona amata.
Un desiderio grande come il cielo
Ma la cosa più bella di tutte è il desiderio espresso da quell’ottativo (εἴθε γενοίμην οὐρανός, che si potrebbe anche tradurre: “volesse il cielo che io fossi il cielo!”), quasi a dire che per amore io desidero in grande, mi faccio grande, “mi cangio in dio da cosa inferiore” per dirla con Giordano Bruno e i suoi eroici furori… e il mio desiderio diventa grande come il cielo!
Noi moderni, che abbiamo familiarità con l’infinito, diremmo: Tu, che io amo, mi infinitizzi!
Ἀστέρας εἰσαθρεῖς Ἀστὴρ ἐμός· εἴθε γενοίμην οὐρανός, ὡς πολλοῖς ὄμμασιν εἰς σὲ βλέπω. Tu guardi le stelle, stella mia: come vorrei essere il cielo per guardare te con molti occhi. (Antologia Palatina VII, 669)
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Francesco Pacia