L’incantevole, bella, terribile: una nuova presentazione dell’innamorata apre il quinto atto del Cantico dei Cantici (Ct 5)

Ancora una volta abbiamo un’alternanza di presenze, come una danza, una bipartizione tra lui e lei con la predominanza scenica di quest’ultima. È il coro a preannunciare l’ingresso dell’amata che, prima ancora di fare il suo ingresso riceve l’elogio dell’amato che immediatamente esprime l’esaltazione e il fremito per la di lei presenza che si sta per palesare. Già in questo primo istante di narrazione del V atto abbiamo due elementi da sottolineare: il giardino del noce, i carri di Ammi-nadib. Il giardino del noce trova la sua identificazione nella zona attorno al lago di Genesaret. In quella zona i noci erano molto coltivati.

Genesaret deriva da “Gen-sar”, che vuol dire “giardino del principe”. La valle è quella del fiume Giordano, il giardino dei noci indica che il Diletto osservava la Palestina dal Regno del Nord. Tale regno, nel suo disegno, aveva il compito di mantenere viva la fedeltà di Israele contro la tendenza all’acquiescenza agli idoli introdotta da Salomone. La comunità di Gerusalemme doveva cogliere questa realtà e non seguire la linea della contrapposizione al regno del Nord.

L’ebbrezza dell’incontro coinvolge e travolge totalmente l’amato che si sente esaltato sì come sui «carri del popolo nobile». Questo è infatti il significato dell’espressione ammi-nadib, la quale potrebbe avere un doppio senso. Si può intendere come nome proprio e dunque Ammi-nadib, il condottiero della tribù di Giuda. Oppure si può intendere secondo come nome comune e dunque nel significato di “popolo nobile”. L’una o l’altra soluzione non modifica, tuttavia, il significato dell’espressione del Diletto che si sente posto come sui carri dei grandi personaggi della corte.

Foto di Satoshi Hirayama da Pexels.

Solo ora qualcuno — forse il coro — invita la Diletta a fare il suo ingresso ed ecco che per la prima volta la giovane fanciulla del Cantico viene chiamata ha-Shulammìt, ovvero «la Salummita» (cfr. Ct 7,1).

Il nome le dà la qualifica di donna di Shulam oppure Shunem, un villaggio della pianura di Esdrelon, la patria di Abisag. Si tratta della ragazza scelta per riscaldare il corpo dell’ormai vecchio re Davide nel primo Libro del Re, ovvero la ragazza più bella del tempo.

Il nome che nel Cantico si dà della Diletta, però, ricalca e richiama anche il nome di Salomone, per ciò lei potrebbe anche essere “la donna di Salomone”. Si avrebbe dunque una sorta di calco della coppia originale ish/ishà, uomo/donna (cfr. Gn 2,23). Le possibili etimologie, tuttavia, non cessano a queste due ipotesi. Sia il nome di Salomone, sia quello di Salummita recano in sé il vocabolo ebraico traducibile — nell’italiano — come “pace”, Shalòm. Giocando con la declinazione di genere del termine pace, avremo allora “re o uomo della pace, pacifico” per lui e “regina, donna della pace o pacifica” per lei. Re e regina, uomo e donna che insieme hanno trovato shalòm, pace, nell’amore.

Infine, ma non certo per importanza, il fervido richiamo a Gerusalemme, anticamente chiamata Shalém. In questa interpretazione la Diletta sarebbe la “donna di Gerusalemme” la figlia di Gerusalemme per eccellenza. Non a caso lui l’aveva definita bella come Gerusalemme (cfr. 6,4).
L’amato prosegue in un elogio appassionato della sua amata e la definisce incantevole. Il termine incantevole indica la capacità della donna di lasciarsi ornare di sempre nuovi aggettivi, capacità che nasce dallo sguardo che l’amato ha sulla sua amata. Viene paragonata alla città di Tirsa, l’antica capitale del Regno del Nord — ancora un secondo richiamo a questo Regno —, prima di Samaria.

Questa città era molto bella, imponente; con un significato etimologico molto interessante: significa capacità di compiacersi in qualcuno, di essere gradito. Parafrasando l’espressione dell’amato, potremmo dire: «Sei incantevole, perché io mi compiaccio in te!». Questa espressione non può che riportarci alla ben più nota espressione sinottica rivolta al Cristo, ovvero «Questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto» (cfr. Mc 9,7; Mt 17,5; Lc 9,35): il Cantico rimanda e richiama il compiacimento di Dio in Cristo Gesù. Come la Diletta è il compiacimento, la gioia del suo Diletto, così Cristo è compiacimento di Dio.

Ma come si possono coniugare le due diverse gioie? Troviamo la soluzione nelle parole del Profeta Isaia: «come gode lo sposo l’amata così di te avrà gioia il tuo Dio» (Is 62,5). In questa sintesi profetica, però, ci sentiamo tutti interpellati. Tutti siamo amati da Dio, seppure Cristo è il primo di tutti, in Lui tutti siamo amati. Così possiamo dire con il filosofo Kierkegaard: «Tu ci hai amati per primo, o Dio, e noi parliamo di te come se ci avessi amato per primo una volta sola. Invece continuamente, di giorno in giorno, per la vita intera Tu ci ami per primo».

Dopo l’elogio, un gioco di sguardi: occhi puntati negli occhi. Quelli dell’amata sono occhi che stregano (letteralmente!), ma non nel senso che conosciamo noi. Sono occhi fieri, che non temono nulla, che hanno la capacità di scrutare nel profondo, non in termini investigativi, ma per incoraggiare e sostenere. Sono occhi trasformati dall’amore.

Foto di CristiYor da Pixabay.


E giungiamo, così, sotto le vigne. Notiamo immediatamente un richiamo all’atto II dove lui invitava lei ad uscire per godere assieme della primavera. Ora è lei che invita lui ad uscire, a trascorrere una notte d’amore all’aperto. Lascia stupiti un invito in particolare della Diletta, quello a trascorrere la notte nei villaggi, all’aperto (cfr. 7,12). L’amata ha imparato a non possedere, a non vivere la relazione solo in termini intimistici, ma ad allargare il campo delle relazioni con gli altri.

«Va’» è l’invito che Dio fa ad Abramo, il quale lascerà la sua terra per camminare nella scoperta della relazione col Dio della vita. «Usciamo» è il verbo utilizzato nel libro dell’Esodo per liberare dall’Egitto il popolo d’Israele. Nella relazione con l’altro scopriamo un cammino da fare nella conoscenza dell’altro e di Dio, per una liberazione sempre maggiore dai nostri bisogni egoistici che ci incatenano. La passione dell’amato fa nascere il desiderio di continuare a donarsi da parte dell’amata che invita il suo amore ad avere sempre più amore, sempre più vita ed essere fecondi, donandosi continuamente senza trattenere nulla di sé per sé. E la vita si scopre nelle cose piccole, nelle gemme che si schiudono, nei piccoli fiori rossi dei melograni. Servono gli occhi limpidi e attenti per scorgere il movimento della vita.

E siamo alla conclusione dell’atto e vorremmo soffermarci su un versetto molto particolare.

«Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi: amato mio, li ho conservati per te» (7,14).

Le mandragore sono dei frutti considerati come potenti afrodisiaci, utilizzati anche come emetico, narcotico e curativo per le gravidanze. Letteralmente dovremmo tradurre questo termine con “persuasore d’amore”. Tutto ciò che fa capire all’altro il bene che c’è nella relazione. Possono essere fatti, cose, persone: tutto mi aiuta a capire la circolazione del bene nelle relazioni. Infatti questi frutti spandono odore, si annusano nell’aria, perché è un qualcosa che non si può palpare, è una sensazione che si prova interiormente, e che non sempre si può vedere o si può toccare.

Si parla poi di porte: ma come? Non erano, i due, nelle vigne? E’ più bello tradurre con “aperture”, i varchi, lo spazio che si lascia perché l’altro, nella relazione, possa entrare ed uscire, non legandolo o costringendolo. Questo atteggiamento, che possiamo definire di non possesso, è pieno di delizie, i frutti appunto. L’atteggiamento si materializza al punto da potersi gustare, è proprio il meglio che ci si può attendere. I frutti, o meglio le delizie, non sono freschi o secchi, ma, letteralmente nuovi e vecchi. Ovvero recente, fresco, straordinario, inaudito; vecchio, invece, ha il significato sì di invecchiare, ma anche quello di addormentarsi, rallentando l’andatura e diminuendo i riflessi.

Nelle relazioni quotidiane ci sono entrambi i termini. Viviamo la dimensione straordinaria, fresca, nuova, e anche il già visto, il già ascoltato. Tutto, però entra nella relazione con l’altro. Il donarsi tutto reciprocamente contiene il darsi le cose eccellenti ma anche le situazioni rallentate, la fatica nel muoversi. Chi si dona non trattiene nulla, non nasconde nulla, come lo scriba saggio che tira fuori dal suo tesoro cose antiche e cose nuove (cfr. Mt 13: 54-62).

Ma non tutte le relazioni sono uguali. Esistono relazioni più intime, sentimenti più profondi che non si possono sbandierare ai quattro venti, ma vengono serbati solo per l’amato. E da questa relazione, da questa intimità nasce la vita che si espande tutta intorno.

Qui il link per leggere il IV atto del Cantico.

Cristian Lanni


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