La Passione di Gesù fra salmo e la poesia di Turoldo
D.M. Turoldo (1916-1992) fu teologo, sacerdote e poeta italiano, membro dell’Ordine dei Servi di Maria. Cultore della preghiera salmodica, si occupò di redigere una raccolta poetica del libro dei Salmi corredando ciascun testo di una breve prefazione in poesia e di una preghiera finale. Nelle righe che seguiranno, il salmo della Domenica delle Palme (Sal. 21) sarà commentato partendo dalla preghiera che il poeta scrive a seguito del testo scritturistico.
La preghiera di D.M. Turoldo
In calce, a suggello e firma della riscrittura del Sal. 21 (eb. 22), che la liturgia colloca in relazione al vangelo della Passione nella domenica delle Palme, scrive D.M. Turoldo:
Padre, dopo le forti grida e le lacrime di tuo Figlio in croce, noi ti chiediamo di capire; ti chiediamo solo di essere fedelicome lui e che tu ci esaudisca nella nostra pietà: così pure noi possiamo cantare l’inno della Pasqua assieme a tutti i poveri e gli oppressi. Amen
La preghiera del poeta Turoldo in due punti sembra essere ambivalente: le espressioni noi ti chiediamo di capire e nella nostra pietà nascondono un doppio significato. Il duplice movimento semantico delle espressioni rivela un movimento teologico doppio che, nella Passione e Risurrezione del Cristo raggiunge il parossismo: I movimento) l’itinerario che da Dio conduce all’uomo e II movimento) quello opposto che dall’uomo ritorna a Dio. Vediamo in che modo si esprime l’ambiguità della scrittura, intrecciando le parole di Turoldo con le parole del salmo.
Noi ti chiediamo di capire
Il primo significato e più evidente alla percezione interiore del lettore è noi ti chiediamo, fa’ che comprendiamo. Il poeta, in contemplazione della Passione, elegge se stesso a voce del consorzio umano e chiede il dono della comprensione. L’umanità innalza a Dio una preghiera, (tracciando il II movimento) e desidera che la traiettoria venga ripercorsa all’indietro, chiedendo allo Spirito di ridiscendere e illuminare le menti di fronte al mistero (movimento I). Questo desiderio di discesa dello Spirito è lo stesso che terribilmente traspare dal salmo nel suo primo versetto. È il grido di Gesù crocifisso: “Dio mio, Dio mio, guardami, perché mi hai abbandonato lontano dalla mia salvezza?”.
Il secondo significato che si può estrapolare dall’espressione del poeta è: noi chiediamo che tu comprenda. Di fronte alla verità di un Dio crocifisso, di suo Figlio inchiodato sulla croce, carico del nostro peccato, assieme a Turoldo chiediamo a Dio la comprensione di ogni nostra mancanza. Il verbo greco che Agostino traduce con guardami in Sal. 21, 1, esprime a pieno il sentimento umano di fronte al mistero: proécho significa letteralmente “tenere davanti”: in primo luogo, veicola l’idea della superiorità di Dio e della conseguente presa di coscienza da parte dell’uomo di essere un nulla al suo cospetto. In secondo luogo, viene utilizzato per descrivere il movimento di un Dio che, pur in virtù della propria superiorità, si volge a guardare la nostra piccolezza.
Per la nostra pietà
Il dolore del Figlio Crocifisso trova il suo apice nell’abbandono del Padre: spogliato di tutto, il Cristo si spoglia, in comunione con la Trinità, dell’Amore di Dio e la sua carne santa, privata della divinità, grida al cielo l’allontanamento del Padre. Quale il fine di questo annichilimento? Doppio, come duplice è il significato dell’espressione per la nostra pietà: per pietà di noi, perché dalla fratturata realtà del peccato potessimo giungere alla salvezza. Per la pietà nostra, cioè per quel dono di consapevolezza che nel percorso d’ascesa, possiamo coltivare nel cuore e con esso guardare al mistero. Con occhi pietosi e pieni di lacrime, l’anima guarda al Crocifisso e ricorda, allora, il principio, il mezzo, la fine della sua salvezza.