Come anticipato nel precedente articolo (QUI) la riflessione sul Documento sul primato del Pontefice implica necessariamente anche una riflessione sul fondamento stesso del primato e sui dogmi ad esso relativo: il primato di giurisdizione e l’infallibilità papale.

La questione dogmatica e la questione dell’autorità

Sul piano strettamente dogmatico, due osservazioni dovrebbero accompagnare l’analisi. Il modello di pronunciamento resta nello stile del “magistero negativo” – non afferma, ma nega una negazione – e lo fa in linea con una serie di affermazioni parallele, anche se non coperte da questo grado di autorevolezza, come inerranza, indefettibilità, indissolubilità e ora anche infallibilità. Per certi versi, se escludiamo la lunga stagione dell’antimodernismo, il 1870 segna anche la fine di questo stile che potremmo definire, in fin dei conti, apologetico. È lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano I ad essere testimonianza viva, travagliata e cosciente – almeno nei suoi padri più lucidi – della crisi del magistero negativo. Già allora era evidente che non fosse più sufficiente negare l’errore, come il magistero ecclesiale aveva fatto per secoli, in gran parte degli interventi in questa linea. Lo stesso progetto del Concilio Vaticano I aveva concepito, almeno all’inizio, l’idea di poter essere una sorta di silloge di tutte le condanne del XIX secolo. Ma poi si comprese che quella strada era ormai preclusa, almeno come primario compito conciliare.

Il rapporto con la storia e con il suo senso è decisivo per la Chiesa. Una collocazione equilibrata tra l’anticipazione di ogni giudizio e la sua procrastinazione – tra una chiesa etica e una chiesa escatologica, tra una chiesa non indifferente e una chiesa indifferente – mette sempre in gioco l’Autorità e le sue forme di esercizio. Dogma e storia si fronteggiano e faticano a trovare una mediazione. Un incondizionato, un assoluto, un trascendente prende necessariamente forma ecclesiale, ma resta il comprendere in che modo e a quali condizioni. La fatica di tenere il passo della storia può trovare e riconoscere, fuori di essa, un principio altro. Che però stenta a darsi forma adeguata, non solo in un “altrove”, ma con un “prima” e con una lettura idealizzata e nostalgica di questo prima. I disegni “intransigenti” di lettura del papato hanno proiettato sulla infallibilità molto più di quel che è. Questa prerogativa papale, che è in realtà prerogativa ecclesiale e che come tale è anche richiamata nella formula ufficiale di proclamazione, orienta la lettura del Corpo mistico in modo assai unilaterale. Impiegherà quasi un secolo la Chiesa a trovare una lettura diversa, in un altro Concilio, il Vaticano II, nella discontinuità dal Vaticano I, visto che si chiarì subito che si trattava non della continuazione di quel concilio incompiuto, ma di un altro concilio. La piramide si rovesciava: il servizio papale dell’unità recuperava quella forza ecclesiale che era stata invece estenuata, per quasi un secolo, sul versante politico e istituzionale. Un altro modello di Chiesa: non societas inaequalis ma Popolo di Dio, accezione che permetteva di leggere diversamente anche le prerogative eccezionali del Servus servorum Dei. Per comprendere la Chiesa è chiaro che, senza negare né popolo né suo Pastore supremo, una cosa è iniziare dal Papa e altra cosa è iniziare dal popolo [15].

Una sfida epistemologica e l’idea di un fondamento biblico-patristico

La proclamazione dell’infallibilità papale, volenti o nolenti, genera una questione di carattere epistemologico: da un lato, infatti, essa pare estendere alla Chiesa quella auto- testimonianza che solo di Cristo può essere affermata in senso stretto. Estendere alla Chiesa e al Pontefice una prerogativa singolarissima riservata al Figlio di Dio è operazione audace e rischiosa. D’altra parte, proprio l’accuratissima serie di condizioni cui è subordinata l’operatività garantita dell’infallibilità papale chiarisce bene che l’equilibrio tra auto-implicazione e fondazione è assai difficile da mantenere.

Alla luce di questa questione, è bene anche comprendere se l’infallibilità sia o meno biblicamente fondata. Apparentemente sembrerebbe che la risposta possa essere negativa, nel senso che sebbene Pietro sia certamente centrale per la predicazione del Vangelo [16] non sembra che la Scrittura ne dichiari esplicitamente un privilegio di infallibilità che possa in qualche modo assicurare che il Principe degli Apostoli non sia soggetto ad errore. In vero pero, bisogna partire da una fondamentale considerazione: nessun dogma – in quanto per sua natura dichiarazione solenne di una verità di fede – è contrario al Depositum fidei, né tantomeno aggiunge o sottrae elementi alla fede, anzi è solo funzionale ad essa nel dichiarare una verità che in sé stessa già esiste. E dunque, anche per l’infallibilità papale esiste un fondamento Scritturistico. Il Divino Fondatore ha fondato la sua Chiesa su Pietro [17], ma se quest’ultimo errasse allora significherebbe che la Chiesa di Cristo procederebbe nell’errore e se questo fosse vero allora anche lo Spirito, che agisce da Cristo e per Cristo guidando la Chiesa, sarebbe in errore ed in definitiva Dio stesso sarebbe fallibile perché in errore. Allo stesso modo, nello stesso capitolo matteano, il sedicesimo, troviamo anche il fondamento del primato di giurisdizione del Pontefice sulla Chiesa cattolica e sul Collegio episcopale, successore del Collegio Apostolico: Pietro, e con lui i suoi successori, è il fondamento della Chiesa, istituito per volontà divina dal Fondatore. Ed ecco che il primato come l’infallibilità si rivelano non come poteri di supremazia, ma come privilegi del servizio: legare e sciogliere [18], presiedere, sono prerogative che garantiscono il servizio del fondamento al suo Fondatore. Bisogna comprendere, ed il dogma lo fa, dove, in quale campo Pietro sia infallibile: quando parla ex Cathedra in materia di fede, morale e dottrina. Ecco dunque la funzionalità del dogma, non è infallibile il Pontefice in quanto persona, ma il suo ministero di successore del fondamento della Chiesa. Ed anche in questo caso la Scrittura sostiene il dogma, quanto il Signore avverte Simone che Satana li cerca per vagliarli come il grano, ma Lui – il Fondatore – ha pregato affinché la fede di Simon Pietro – il fondamento – non venisse mai meno [19], ma continua esortando Pietro a confermare i suoi fratelli nella fede. Dunque, se il Divino Fondatore stesso ha pregato affinché la fede di colui che ha scelto come fondamento potesse non vacillare mai e sempre essere nel vero, allora nessuno può dubitare che la parola di Pietro in materia di fede, dottrina e morale possa essere infallibile.

Non è tutto, se letta attentamente, la Pastor Aeternus [20] fa trasparire chiaramente che il dogma accoglie un sensus fidelium precedente, oseremmo dire sin dall’inizio della fede cristiana. Già i Padri della Chiesa, in varie occasioni, hanno riconosciuto l’infallibilità del Vescovo di Roma. Ad esempio, Sant’Ignazio di Antiochia, afferma che i cristiani di Roma “sono puri da ogni estranea macchia”. Ovvero da ogni errore. Già all’inizio del II secolo, quindi, si prefigura l’infallibilità della Chiesa e del suo Capo. Così anche Cipriano, nel III secolo, definisce la Chiesa di Roma come la Cathedra Petri che scrive, parlando delle eresie: “Essi non pensano che devono trattare con i Romani, la cui fede fu lodata dalla gloriosa testimonianza dell’Apostolo e presso i quali l’errore non può trovare alcun accesso”. Per il vescovo nella Chiesa di Roma, e quindi nel Papa, non può esserci errore. L’infallibilità dunque, anche se non in maniera esplicita, era già ampiamente conosciuta.

Un ultimo aspetto da sottolineare è che di questo dogma gode anche il Collegio apostolico, unito e sottomesso al Pietro. Nell’Ultima Cena, come si legge nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice agli apostoli: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi” [21]. Nell’esercitare il loro servizio pastorale, i Vescovi, in comunione con il Papa, sono assistiti dunque dallo Spirito di Verità e, in virtù di ciò il Collegio episcopale non può sbagliarsi in materia di fede e di morale. In questa prospettiva, la Chiesa, grazie all’assistenza dello Spirito Santo, gode del dono dell’infallibilità nell’insegnare e nel credere le verità della fede. L’autorità che Cristo, Divino Fondatore ha conferito alla sua Chiesa, infatti, è soprattutto un’autorità dottrinale.

La “conversione” del Papato

Che il Pontefice, in determinate condizioni, possa essere garantito da ogni errore, dopo il Concilio Vaticano II, non può essere il principio di comprensione della Chiesa. Viceversa, nella indefettibilità dalla verità, che è di Cristo e della Chiesa, recuperata come vita alimentata dalla preghiera liturgica, dall’ascolto della Parola, dall’articolata relazione ecclesiale e dal dialogo sorprendente col mondo, al vescovo di Roma è riservata, eccezionalmente e a condizioni assolutamente definite, una possibilità di interpretazione autentica ed efficace di questo certo permanere nella verità, questo è più razionale e comprensibile. Che è prima e indubitabilmente di Cristo, poi del corpo della Chiesa, casta meretrix, e da ultimo sta nei suoi interpreti autorizzati e autorevoli, sopra i quali il Vescovo di Roma esercita il suo servizio all’unità. Ma, come è avvenuto per il Magistero in senso generale, anche per il Pontefice è finito il tempo della “negazione delle negazioni”, di cui fa parte, in un certo senso, anche la terminologia dell’infallibilità. Come al Magistero ecclesiale nel suo complesso non è più sufficiente affermare la verità mediante la condanna dell’errore, così, anche per il Papa, alla qualifica di non poter dire la cosa sbagliata – garantitagli dal dogma solo a certe condizioni – si sostituisce il calore vibrante della Parola biblica, la forza elementare dell’azione rituale, l’intensità calda del rapporto di comunione ecclesiale, la profezia piena di sorpresa nel riconoscere i percorsi dello Spirito di santità, che agisce apertamente e per vie segrete nel mondo. Possiamo avere misericordia dell’elefantiasi antica e moderna proiettata sull’infallibilità papale a patto che sappiamo riconoscere, sulle orme del Concilio Vaticano II, ma già nella stessa eredità paradossale del Vaticano I, che l’infallibilità più autentica è solo quella della misericordia. È la peculiarità non ordinaria di un Pastore che, alla sequela del Signore e sulle orme di Maria, possa riconoscersi e presentarsi anzitutto come miserorum miseratus.

Tanto premesso per tentare una ipotesi di conversione del papato, secondo le parole di Papa Francesco e dello stesso Documento dello scorso 13 giugno, non si può prescindere dal dire una parola anche sulla “istituzione divina” della co-decisione. È vero che Gesù ha scelto un gruppo di Apostoli e che lo Spirito concede i suoi carismi e doni a chi vuole, ma è anche vero che il modo di organizzare, di impartire il Magistero e di governare la Chiesa non deve essere – tanto meno se fatto passare sotto la garanzia della “istituzione divina” – quello monarchico e assolutista. Visti i contributi del Vaticano II e del tempo che ci è dato di vivere, tali modi possono – e devono –essere realizzati nella corresponsabilità; in quelle modalità di condivisione sinodale che Francesco porta avanti nel suo Pontificato. Questo modo di procedere rispecchia un esercizio di autorità rispettoso della dignità di tutti i battezzati (profeti, sacerdoti e re) e della responsabilità propria dei Ministri ordinati, anch’essa divinamente fondata nella loro singolare sollecitudine per l’infallibilità di tutto il popolo di Dio. In una Chiesa infallibile in credendo, quanto deciso nella sinodalità non deve spaventare, ma anzi rasserenare in vista di una maggiore garanzia di veridicità, sotto la guida di chi presiede nella carità e nella verità. La guida appunto, il dovere-diritto ribadito dal Concilio Vaticano II [22], in capo al Romano Pontefice di assegnare i compiti; intervenire, «in ultima istanza» (ultimatim) nel governo ordinario delle Chiese locali «in vista del bene comune» e, in modo particolare, vegliare sull’unità della fede e sulla comunione ecclesiale di tutta la cattolicità. Sono compiti che devono essere svolti nella fedeltà a una Chiesa che si auto-comprende come cattolica, perché è comunione di comunità locali; quindi non uniformata, ma diversificata nelle sue peculiarità ed uniforme nell’unica fede.

Da questo, dunque, l’idea di “conversione” del papato. Un papato “convertito” non interviene – né può – intervenire nella pastorale e nel governo quotidiano di tutte le diocesi. Basta – ed è sufficiente – che assegni i compiti e sia “l’ultima istanza” di appello, sia per i Vescovi, sia per i Religiosi, sia per i Battezzati. Non è, né può essere – per quanto possa dispiacere a chi coltiva una concezione uniforme dell’unità – il Vescovo del mondo. Basta – ed è sufficiente – che lo sia della Chiesa di Roma e che «presieda nella carità» il collegio dei successori degli Apostoli. Come nel dialogo ecumenico si sta facendo strada il concetto di unità come “diversità riconciliata”, così è determinante che tale concezione dell’unità faccia parte di un modello organizzativo di comunione di Chiese diverse nella loro espressione e, allo stesso tempo unite dalla stessa fede, espressa in un medesimo credo condiviso da tutti. Urge quindi ripensare e “convertire” – come indicato, in riferimento ad un’espressione di papa Francesco – il modello attuale del papato. E si deve farlo, accogliendo ciò che è stato proclamato nel Concilio Vaticano I, però nel canale fecondo della collegialità episcopale e dell’infallibilità di tutto il popolo di Dio in credendo e dunque di chi questo popolo lo presiede come fondamento quando insegna in materia di fede, dottrina e morale, affermate dal Vaticano II. Un papato “convertito” in qualche maniera si ispira al detto di sant’Agostino: «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas».

Pietro presiede la Chiesa e conserva la sua infallibilità, voluta da Cristo stesso, solo se pasce il gregge focalizzando la sua azione sul servizio nell’amore. Il papato potrà “convertirsi” solo se non vivrà il suo ministero come un retaggio di una monarchia nostalgica, ma nella consapevolezza di essere fondamento e non Fondatore. Allo stesso tempo, però, anche il Collegio apostolico – che pure gode della grazia della verità nello Spirito – e tutto il popolo di Dio che dell’infallibilità gode in credendo, deve avere la seria consapevolezza del suo ruolo. Non si servirsi di Pietro, ma di servirlo perché possa svolgere al meglio il suo ministero di presiedere nella carità, garantire l’unità e confermare nella fede. Una vera “conversione” del papato nasce dalla corresponsabilità e dalla consapevolezza che ognuno, nella Chiesa, ha il suo ruolo.

Prof. Cristian Lanni

[15] La questione è meglio argomentata da A. Grillo, Infallibilità, autorità e storia: 150 anni dopo una “regolata eccezione”, in Rivista europea di cultura, luglio 2020.

[16] cfr. Mt 16, 18-19.

[17] Mt 16,18.

[18] cfr. Mt 16,19.

[19] cfr. Lc 22, 31-32.

[20] La Costituzione con la quale il dogma viene proclamato.

[21] Gv 14, 16-18.

[22] cfr. LG, n.27.

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